domenica, Dicembre 8, 2024
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La festa del 2 giugno continua ad essere divisiva

di Salvatore Sfrecola

Anche se le varie autorità diranno oggi che il 2 giugno è la festa non solamente “della Repubblica” ma anche “degli italiani” la realtà del dibattito politico ci consegna l’immagine di un Paese profondamente diviso. Non, ovviamente, tra repubblicani e monarchici, anche se sento spesso ripetere da amici e conoscenti “il 2 giugno 1946 i miei hanno votato per la Monarchia”, mio padre “era” monarchico, ma perché, come si legge nell’Avvertenza di Indro Montanelli al libro scritto insieme a Mario Cervi (L’Italia della Repubblica – 2 giugno 1946 – 18 aprile 1948, Rizzoli, Milano, 1985), “di coloro che avevano votato Repubblica… pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, L’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità… (e che) scomparso anche quello, il Paese era in balìa di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrava con una violenza proporzionale alla repressione cui per vent’anni l’aveva sottoposta il fascismo; mentre il regionalismo, fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia gli estremi del separatismo”.

Perduta, dunque, quella unità che si era formata attraverso il pensiero e l’azione di quanti avevano concorso a realizzare l’indipendenza e l’unità della Patria nel corso dell’800, le forze politiche che si sono succedute al potere dal 1946 non hanno voluto o saputo farsi carico di quell’eredità straordinaria, identitaria nella preziosa diversificazione delle realtà ambientali e delle esperienze politiche, culturali ed artistiche che fanno dell’Italia un unicum nel mondo, sicché si è disperso il senso dei valori civili che fanno di una comunità una Nazione consapevole dopo che per troppo tempo, come ricorda l’inno di Mameli, siamo stati calpesti e derisi perché divisi e sottoposti per secoli a dominazioni straniere.

Né potevano interpretare sentimenti identitari i due massimi partiti che hanno dominato la scena politica, la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista Italiano, estranei all’esperienza risorgimentale. La DC perché, finché Paolo VI riconobbe nel Risorgimento italiano “quel carattere superlativo che pure chiamiamo provvidenziale”, non era difficile trovare qualcuno nostalgico del Papa Re ed ancora irato perché lo Stato italiano, all’indomani dell’annessione di Roma, aveva espropriato palazzi e conventi per farne uffici statali; il P.C.I. perché ancora legato alla politica europea dell’URSS tanto da giustificare l’aggressione armata dell’Ungheria desiderosa di indipendenza. Quando furono definiti “carristi” illustri esponenti di via delle Botteghe Oscure che plaudirono all’invasione di Budapest.

In questo contesto, per la mancanza di quel “mastice comune” stanno esplodendo divisioni, di natura territoriale, come le rivendicazioni del Sud che obiettivamente è stato trascurato soprattutto nelle infrastrutture che avrebbero dovuto sviluppare l’economia meridionale e delle isole. Se noi pensiamo che nel 1846, quindi molto prima che entrasse in politica, Camillo Benso di Cavour aveva delineato l’unità d’Italia attraverso l’economia dei trasporti e il valore del patrimonio storico artistico, come momento di interesse per un turismo allora d’élite, con le ferrovie che avrebbero portato le merci ed i prodotti del Sud al Nord e in Europa e il ruolo dei grandi porti di Napoli e di Palermo che avrebbero fatto dell’Italia, un promontorio nel mare Mediterraneo, la porta dell’Europa sul medio e l’estremo Oriente.

Oggi siamo fortemente divisi perché le forze politiche di maggioranza sono tra loro in concorrenza e bloccano il dibattito politico su temi fortemente divisivi (“Duello a destra”, titola oggi Flavia Perina su La Stampa parlando di un derby tra conservatori e sovranisti, in pratica tra Giorgia Meloni e Matteo Salvini), come l’autonomia differenziata (che per Calenda, che ne ha parlato con Avvenire, “sta spaccando l’Italia”) ed il premierato che evoca l’esperienza del governo fascista contro la quale aveva tuonato alla Camera, nel 1924, proprio nel momento delle prime “riforme” che avrebbero costruito un regime totalitario, un grande giurista e parlamentare liberale, Vittorio Emanuele Orlando.

La campagna elettorale per le prossime elezioni europee, che sfiora soltanto i temi delle politiche dell’Unione, è concentrata prevalentemente sui problemi interni, con una polarizzazione politica che spinge i candidati ad estremizzare le loro posizioni in un atteggiamento che, osserva Alessandra Ghisleri, ricercatrice attenta degli orientamenti dell’opinione pubblica, erode la fiducia nella politica al punto da far crescere l’astensionismo, soprattutto dei giovani.

Ed è divisa l’Italia per l’inconsistenza di una opposizione frammentata che non riconosce i valori della storia e dell’identità italiana, che si perde in una serie di battaglie ideologiche di scarso interesse per le classi popolari al limite della sopravvivenza, come dimostra l’andamento dei consensi elettorali che, per alcune formazioni minori alla ricerca disperata di un ruolo, presentano percentuali da prefissi telefonici. 

Ed è così che la “Festa della Repubblica” coincide con un momento di altissima tensione che all’interno della maggioranza ha assunto le caratteristiche di una tregua armata che la dice lunga sulle prospettive delle riforme che la Presidente del consiglio Giorgia Meloni ha messo in cantiere. Tante iniziative in una sorta di “bulimia riformatrice” destinata a fare i conti con un’opinione pubblica che nel recente passato ha dimostrato di non gradire innovazioni costituzionali portate avanti con slogan aggressivi che avrebbero voluto semplificare il messaggio in modo che sembrasse più convincente, del tipo “sceglierete voi il Capo del Governo”. Mentre, a scegliere saranno sempre i partiti che indicheranno il candidato deciso dalle Segreterie.

Nel marasma che questa congerie di riforme poco meditate sta producendo si va manifestando nel Paese un’ulteriore divaricazione come dimostrano le valutazioni del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana C.E.I.), il Cardinale Matteo Zuppi, che hanno irritato la premier la quale se n’è uscita con una battuta riferita alla natura certamente non parlamentare dello Stato della Chiesa, notoriamente una monarchia assoluta elettiva. Come ha osservato più d’uno i vescovi non rappresentano lo Stato della Chiesa, ma esprimono le opinioni del clero italiano che vive nella realtà di una società dalle molteplici disfunzioni. Contemporaneamente è singolare che la Premier faccia questo riferimento al ruolo del Parlamento, in sofferenza da molto tempo e che la sua riforma, il premierato, mortificherà ulteriormente. Così come sarà per il ruolo del Capo dello Stato. E questo ovviamente preoccupa perché esperienze autocratiche le abbiamo già avute e perché se nessun ordinamento ha un premierato come concepito dalla maggioranza ci sarà ben una ragione. Anche perché chi lo ha sperimentato, Israele, ha fatto rapidamente marcia indietro.

Infine, non può essere un caso se non si parla mai di legge elettorale se non con il riferimento al possibile limite per assicurare la maggioranza. Cioè non si parla di come gli italiani potranno concorrere a costituire una classe dirigente di valore attraverso un sistema che restituisca al cittadino un diritto di scelta autentico, come quello che caratterizza l’ordinamento elettorale del Regno Unito che da sempre garantisce la governabilità all’inquilino di Downing Street. Un sistema elettorale che si basa su collegi uninominali nei quali si realizza un rapporto stretto tra eletto ed elettore, come dimostra il fatto che in questi giorni, nella prospettiva delle elezioni per il rinnovo della Camera dei comuni, che si terranno il 4 di luglio, si è sentito che una personalità di spicco del Labour party espulsa dal partito si potrà presentare autonomamente in un collegio nel quale era stato eletto in precedenza. 

Conclusivamente, l’Italia del 2 giugno 2024 ha molta strada da percorrere per recuperare il senso dell’identità politica e istituzionale, necessario perché il confronto tra i partiti, anche quando caratterizzato da forti contrapposizioni, non metta in forse la sopravvivenza dello Stato nella sua configurazione di “democrazia rappresentativa”, com’è nato nel 1861, per cui il governo resta in carica fino a quando ha la fiducia delle Camere espressione della sovranità popolare. Con la conseguenza della assoluta centralità della legge elettorale nel funzionamento dello Stato. 

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