martedì, Ottobre 15, 2024
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Quando parla di Europa “dei popoli e delle Nazioni” Giorgia Meloni è involontariamente “monarchica”

di Salvatore Sfrecola

Non sembri una provocazione il titolo che attribuisce un modo di ragionare da monarchica alla repubblicanissima Presidente del Consiglio, perché è proprio la visione d’Europa che emerge dall’intervista concessa da Giorgia Meloni a Tommaso Cerno, direttore de Il Tempo, che l’avvicina alla concezione dell’Europa “delle nazioni” che fu obiettivo del monarchico Charles de Gaulle.

Nel delineare le aspettative del dopo voto (“l’Europa di destra adesso si può fare”), quando vede nel possibile risultato un “vero e proprio bivio”, e Cerno le chiede “per dove?”, la Premier non ha dubbi: “da un lato un’Europa che in nome dell’ideologia va verso il declino e la desertificazione produttiva, dall’altro un’Europa che sostiene l’economia reale e chi produce e lavora; da un lato un’Europa debole e incapace di incidere, dall’altro quella forte e protagonista sugli scenari internazionali; da una parte un’Europa super stato burocratico, dall’altra quella dei popoli e delle Nazioni”.

Di più, venendo a parlare del ruolo dei conservatori, cioè di coloro che hanno “la consapevolezza che più sono profonde le radici di un albero più la sua chioma potrà tendere al cielo, così come che è una pianta senza radici, per quanto possa essere rigogliosa, sarà spazzata via al primo colpo di vento”, Giorgia Meloni richiama il progetto politico “che si estende in tutta Europa” che ha nei Tories britannici “una delle sue più antiche e migliori espressioni. Fatto di valori da proteggere, ma anche di curiosità per l’innovazione e di fiducia nella possibilità di piegare le tecnologie al servizio dei popoli e non viceversa”. E prosegue: “essere conservatori vuol dire amare ancorare le scelte che verranno alla solidità delle nostre esperienze. Un patrimonio di cui siamo tremendamente gelosi, che ci impegniamo a trasmettere ai nostri figli e ai nostri nipoti”.

Questa idea di un’Europa dei popoli e delle Nazioni di cui parlava, come ho ricordato, il monarchico Charles de Gaulle rivela un’esigenza che richiamiamo da tempo, quella secondo la quale la difesa delle identità nazionali cioè dell’ambiente naturale, della storia e della cultura che lungo i secoli ha formato un popolo e una nazione distinguendolo da tutte le altre sono meglio tutelate in Europa, come insegna l’esperienza, dalle monarchie. Queste incarnano l’identità della Nazione e, inoltre, l’esclusione del vertice dello Stato dal confronto politico e dalla lotta per la realizzazione dei programmi politici, fa sì che le forze che si confrontano abbiano la consapevolezza che non viene mai meno, qualunque sia quella che prevarrà, la continuità e la forma dello Stato. Una condizione la cui importanza può non essere compresa se non si considera il ruolo del Sovrano, arbitro imparziale, effettivamente e non per una fictio iuris. Non a caso, infatti, la premier richiama i conservatori britannici, i Tories. Non fa, come avrebbe dovuto per completezza, un qualche riferimento al sistema elettorale inglese che consente di mantenere costante il confronto fra elettore ed eletto nei collegi uninominali nei quali si sostanzia la forza del partito. Ho già fatto di recente riferimento al leader laburista che, espulso dal partito, ha preannunciato la sua partecipazione all’elezione per il rinnovo della Camera dei comuni, prevista il 4 luglio, precisando che si presenterà contro i suoi vecchi compagni nel collegio nel quale è stato eletto in precedenza. A dimostrazione di un elevato tasso di indipendenza dei parlamentari, in ragione di un sistema elettorale che contemporaneamente assicura quella governabilità che da noi si cerca e non si trova perché non si vuol riconoscere che la legge elettorale è lo strumento per la selezione della classe dirigente, che priva di potere le segreterie dei partiti ma rafforza il governo in ragione della maggioranza parlamentare che esprime il Primo Ministro appena terminato lo spoglio delle schede elettorali.

Invece di cercare qua e là col lanternino tra le esperienze costituzionali, ora il semipresidenzialismo ora il premierato, da noi si dimentica che proprio al centro della governabilità é l’autorità del Parlamento espressione della sovranità popolare. Osserva infatti questa mattina su La Repubblica Carlo Galli, autore di un importante studio su “La destra al potere”, del quale parleremo nei prossimi giorni, che il premierato è la fine del Parlamento, già emarginato a causa dell’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza ed ai voti di fiducia. Del resto, lo cito spesso, Vittorio Emanuele Orlando un liberale, straordinario uomo di governo e del Parlamento, giurista insigne, fondatore della scuola italiana del diritto pubblico, costruisce sull’esperienza del sistema elettorale inglese la sua concezione del rapporto delle Camere con il Governo e il Capo dello Stato. Che se è un Re che “regna e non governa”, secondo la formula di Adolf Thiers, assicura una condizione di equilibrio del confronto politico che tra l’altro garantisce quell’unità della Nazione che in molte realtà viene messa in discussione da istanze autonomistiche e separatiste, come si sente nel Regno del Belgio per fiamminghi e valloni e del Regno di Spagna per i catalani.

Qualche considerazione a caldo per riflettere sul Capo dello Stato, sul Parlamento e sul Governo in una democrazia liberale.

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