di Aldo A. Mola
Attualità di un antico Capo dello Stato
Alle 6 del mattino dell’11 maggio 1948 Giulio Andreotti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, informò Einaudi che De Gasperi lo avrebbe fatto votare presidente della Repubblica per superare lo stallo sul nome di Carlo Sforza. Il settantaduenne senatore non gli disse di aver votato monarchia; Andreotti lo sapeva bene e aveva fatto altrettanto. Osservò invece che, claudicante e minuto qual era, avrebbe dovuto sfilare dinnanzi ai corazzieri. Questi, però, erano memori e orgogliosi di essersi schierati per decenni a cospetto di Vittorio Emanuele III.
Capo dello Stato, Einaudi lasciò memoria del suo settennato in Lo scrittoio del Presidente e in Prediche inutili. Continuò a studiare, pubblicare e promuovere ricerche scientifiche e storiografiche e iniziative filantropiche per unire gli italiani, come poi fece negli anni seguenti, restituito alla cattedra universitaria con speciale decreto. Improntò l’esercizio della carica di supremo magistrato della repubblica a discrezione, rigore e continuità. Lo confermò con l’istituzione del Segretariato Generale della Presidenza, nel solco del Ministero della Real Casa.
All’inizio del 1945 aveva tracciato le linee del nuovo liberalismo: “Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno dall’imposta costretti a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio, e siano serbati e onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova, e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio ceto; quando il medio ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi”.
Qual è l’eredità di Einaudi? Suo nipote, Roberto, ricorda che, quando sentiva (talora anche da persone “di casa”) vagheggiare di ideologie “sovietiche” neppure rispondeva: batteva il bastone da passeggio per terra per dire che era impossibile dialogare. Anch’egli coltivò propositi mai attuati, a cominciare dall’abolizione del valore legale dei titoli di studio e dal mito dello “stato sovrano”, cui dedicò pagine nella Piccola antologia federalista, con scritti d Jean Monnet, Denis de Rougemont e altri.
Cultore profondo del “senso dello stato” che, spiegò Benedetto Croce, ministro dell’Istruzione nel V e ultimo governo Giolitti (1920-1921), non è solo “liberismo”, è “liberalismo”, Einaudi ne indicò i fondamenti nella cultura classica e nell’illuminismo, alla cui scoperta critica si dedicarono egli stesso, bibliofilo appassionato, e Franco Venturi. Da presidente della Associazione dei piemontesi a Roma, promossa nel 1944 dal cuneese Renzo Gandolfo (nel 1970 co-fondatore del Centro Studi Piemontesi), nel centenario dell’unificazione nazionale fece rendere omaggio alla sua terra con la poderosa Storia del Piemonte (ed. Casanova). Già ne aveva scritto egli stesso nel fascicolo di “Il Ponte” diretto da Piero Calamandrei dedicato al Piemonte. Vi ricordò che quando si scendeva dalle Langhe si diceva “Vado in Piemonte” e “Vado in Italia” quando si varava il confine del Vecchio Piemonte.
Quali pionieri e numi tutelari del federalismo europeo vengono solitamente citati Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, autore del piano che dette vita alla Comunità europea del carbone dell’acciaio. Tra i profeti e artefici della Nuova Europa va però posto e ricordato in primo luogo proprio Einaudi. Egli conciliò concretezza e profezia, sulla base irrinunciabile dello studio storico, della scienza della finanze e dell’economia politica, senza la quale la politica economica è vaniloquio.
Alla morte di Marcello Soleri (Torino, 23 luglio 1945), Einaudi raccolse il testimone di rappresentante del Vecchio Piemonte. Da presidente della Repubblica nell’ottobre 1949 presenziò alla solenne rievocazione dello Statista promossa dalla Provincia Granda di concerto con l’Associazione Nazionale Alpini. Ne dette ripetutamente conto “Il Subalpino”, settimanale cuneese del partito liberale italiano diretto da Piero Astesano. Dopo l’orazione del ministro Giovanni Battista Bertone, democristiano, Einaudi lapidariamente concluse che “Se mai qualcuno dev’essere considerato un martire, quello è Marcello Soleri”, stroncato da una malattia all’epoca incurabile mentre combatteva per la restaurazione del bilancio statale.
Diretto da Romolo Codogni, il settimanale cuneese aprì il 1961 con un articolo di Einaudi contro l’apertura a sinistra in corso a Milano. Il 18 luglio il settimanale ricordò Giolitti nell’anniversario della morte. Il numero del 7 novembre fu interamente dedicato a “L’uomo che ci ha lasciti”, con articoli su “Vita e opere di Luigi Einaudi” e una rassegna di fotografie tra le quali spiccano un primo piano di lui e Soleri chini a tavola, taciturni, e di Einaudi ai funerali dell’amico: in seconda fila, subito dietro a Ferruccio Parri, il comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” nominato dal principe Umberto di Savoia, Luogotenente del regno, presidente di un Consiglio dei ministri comprendente tutti i partiti del CLN, con il liberale repubblicano Manlio Brosio incaricato per la Consulta nazionale, il socialista Pietro Nenni per la Costituente, Parri stesso all’Interno e all’Africa italiana, De Gasperi agli Esteri, il comunista Mauro Scoccimarro alle Finanze, il liberale Vincenzo Arangio Ruiz all’Istruzione, gli azionisti Ugo La Malfa ai Trasporti ed Emilio Lussu all’Assistenza postbellica, e Meuccio Ruini alla Ricostruzione. Fu un escutivo di breve durata (21 giugno-10 dicembre 1945), seguito dal primo governo De Gasperi, con Epicarmo Corbino al Tesoro.
Il “testamento morale” di Einaudi: l’uomo liberale, economista ed umanista.
Nello stesso numero “Il Subalpino” pubblicò L’uomo liberale di Luigi Einaudi col suggestivo titolo Il testamento morale del Presidente. Merita di essere riletto, almeno in parte: “Accanto all’uomo socialista, il quale cammini, senza volerlo, verso il totalitarismo comunistico, vive in Italia anche l’uomo liberale, il quale intende alla libertà piena di pensiero e di azione. L’uomo liberale onora lo Stato, ma lo teme, non appena varchi limiti dell’azione necessaria e vantaggiosa.
“L’uomo liberale legge ed ascolta i consigli di coloro i quali nei parlamenti, nei giornali, nei discorsi elettorali lo vogliono salvare dalle crisi agrarie, industriali, commerciali, dalle quali egli è spesso afflitto; ma in fondo in fondo pensa: ‘Se i salvatori conoscono le vie di far meglio di quanto io sia capace di fare, perché invece di dettare dal tavolo di funzionario ministeriale o di cattedratico economico circolari e saggi per insegnarmi a fare il mio mestiere non applicano i loro precetti e con l’esempio del successo non mi persuadono nel solo modo ai miei occhi serio, a seguire la via della salvezza?’
“L’uomo liberale sa che il timore della disoccupazione, la quale tanto giganteggia agli occhi degli uomini pubblici, e gli persuade a creare lavoro per i giovani dettando norme restrittive per i vecchi, è fondato sul frusto errore da cui nascono i protezionismi, i restrizionismi, i corporativismi, gli albi dei giornalisti, gli albi dei professionisti, l’obbligo del tirocinio, l’esigenza del titolo legale bollato, vidimato e vistato da chi di ragione; il vecchio errore del credere che si crei lavoro col restringere il numero degli aspiranti al lavoro.
“Dall’errore nascono le rivolte e le rivoluzioni dei paria, esclusi dal lavoro; non nasce lavoro. Questo nasce dalla produzione, dal consentire ai molti, a tutti di produrre ed offrire beni e servigi.
“L’uomo liberale conosce queste verità di esperienza, e sa che purtroppo la lebbra del protezionismo, del monopolismo, delle trincee scavate attorno al proprio campo, non è proprio solo dei lavoratori manuali ed intellettuali, ma si attacca anche a coloro che, creando imprese e commerci, migliorando i campi dimostrano col fatto di amare la libertà e di vivere per essa. Anch’essi, al pari degli uomini nati per ubbidire e per comandare, come è necessario accada nel campo dello Stato, veggono che si può nei casi singoli trarre profitto dalle restrizioni; e chiedono dazi, protezioni, contingenti, concessioni ed ordinazioni di favore imposte dalla legge. Anch’essi da liberali si fanno non di rado socialisti e non offrono quindi nessuna resistenza contro il prevalere del comunismo.
“L’uomo liberale invoca lo Stato quando l’esercito straniero invade la sua patria, mettendo tutto a ferro e fuoco; e quando la polizia non lo difende dai malandrini e dagli assassini. Né la sua gratitudine viene meno quando invia i suoi figli alla scuola; che desidera ampia, luminosa, bene attrezzata e fornita di buoni maestri.
“L’uomo liberale, essendo fornito di buon senso, può lagnasi del permanere di tradizioni fastose le quali inducono lo Stato e gli altri enti pubblici a sussidiare teatri poco frequentati, a fare le spese di fuochi artificiali od a versare contributi a cinematografi affinché cantanti e dive ricevano onorari strabilianti o gruppi privilegiati di sportivi prosperino a spese dei contribuenti; ma plaude allo Stato od all’ente pubblico il quale costruisce strade ed acquedotti, parchi e giardini pubblici, palestre per i giovani e luoghi sicuri per la ricreazione dei bambini; o che, a difendere la terra appenninica dalla erosione e dalla degradazione progressiva, rimboschisce i monti, argina i fiumi, bonifica le terre paludose.
“L’uomo liberale non si allarma se le imposte gravanti sui redditi delle imprese attive crescono allo scopo di sopperire al costo dei servizi propri dello Stato, a quello crescente delle assicurazioni e della previdenza sociale ed all’onere, che egli auspica parimenti crescente, della fornitura ai cittadini di taluni beni comuni, come la sanità, la scuola, la conservazione della montagna e delle bellezze naturali, i giardini, i parchi pubblici; ed oltremodo invece si inquieta quando vede crescere le imposte per sopperire alle perdite di industrie passive; di cui l’esempio più clamoroso è oggi, in Italia, tra molti altri, la fornitura di combustibili sardi o continentali di alto costo, di cattiva qualità e da nessuno desiderati con atto volontario di acquisto.
“L’uomo liberale repugna altresì a talune imprese, anche se logicamente e vantaggiosamente potrebbero essere assunte dallo Stato, quando esse facciano traboccare la bilancia a danno del campo ancora consentito ai privati. Vi ripugna perché alle faccende statali vi è un limite; ed è quello del punto critico nell’incremento eccessivo dei dipendenti pubblici. Guai allo Stato nel quale la possibilità di occupazioni e le maniere di vivere di troppi o di tutti i cittadini dipendono da un unico signore!
“L’uomo liberale vuole che la società nella quale vive, sia varia, ricca di forze indipendenti le une dalle altre, in cui industriali e lavoratori, leghe padronali e leghe operaie liberamente discutano, affrontino e lottino. Egli ama la lotta ed ha in abominio l’ubbidienza ad un solo capo; la lotta è vita, il conformismo è morte. Vuole le leggi chiare e sicure e rigorose, entro la cornice delle quali l’uomo liberamente possa muoversi e cercare la via della sua elevazione spirituale e materiale. Epperciò odia e disprezza la superbia satanica dei politici, i quali osano affermare la loro capacità di insegnare altrui le maniere di comportarsi nelle loro faccende private.
“Il banchiere, il quale ha appreso con lungo tirocinio la difficoltà di scernere, tra i molti, l’uomo degno di investire e di restituire il denaro dei risparmiatori, giustamente disprezza il politico il quale superbamente crede di sapere quali siano gli impieghi meritevoli di essere preferiti. L’industriale, il quale conosce le ragioni per le quali la sua impresa è sopravvissuta correndo rischi e sopportando perdite, l’agricoltore, il quale conosce a palmo a palmo le sue terre e sa il lungo tempo necessario per far crescere la vite e l’olivo e la maniera di conservare i prati ed il bosco, l’artigiano il quale, erede di una lunga tradizione familiare, sa lavorare il legno e il ferro per soddisfare ai bisogni dei compaesani, tutti costoro disprezzano i consiglieri i quali ‘sanno’ le maniere di ovviare alle loro difficoltà, di superare le crisi da cui essi sono afflitti. Perciò non sono socialisti, non hanno paura della concorrenza e della lotta e, credendo nella propria maniera di vita, soli sono degni di far fronte all’avvento ‘fatale’ del comunismo”.
Einaudi studioso di storia
Tra quanti lo cercarono nel suo Eremo di Dogliani, furono accolti con dimestichezza e ne seguirono per tutta la vita il magistero va ricordato il liberale Corrado Sforza Fogliani, futuro presidente della Banca di Piacenza., che venne accolto a San Giacomo il 30 luglio 1961. Nel 2021 il “signor Sforza” (come il Presidente gli si rivolse in una lettera del 17 precedente, con le indicazioni minute del tragitto da Piacenza a Dogliani, sino alla chiesetta dove lo attendeva per la messa delle dieci mattutine) raccolse gli Aforismi per la patria e i risparmiatori di Luigi Einaudi sotto il titolo “Elogio del rigore” (ed. Rubbettino, 2021. Nella postfazione al libro il nipote Roberto Einaudi rievocò il nonno nell’intimità, “per come governava la casa, la famiglia, la proprietà. Il governo delle cose inizia lì, nella casa, nella proprietà, nel quotidiano, per poi passare al governo del territorio immediato e poi alla patria intera”. Per Einaudi,”la classe politica non si forma da sé, né è creata dal ‘fiat’ di un’ elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quella delle cose nazionali od inter-statali più grosse”. Queste richiedono una preparazione e una visione superiore, la capacità di andare oltre gli orizzonti “locali”, regionali e statuali e di cogliere la sfida dei tempi nuovi.
Einaudi ne scrisse ripetutamente. Sin dal 1897, un anno dopo la catastrofe di Adua e mentre la gara coloniale tra Londra e Parigi rischiava lo scontro armato diretto sul Nilo, possibile detonatore di una guerra generale in Europa, esortò a guardare oltre: “La nascita della federazione europea non sarà meno gloriosa solo perché sarà nata dal timore e dalla sfiducia reciproca e non invece dall’amore fraterno e da ideali umanitari”. Nelle istituzioni destinate a durare, la grigia “convenienza” non è né cattiva consigliera, né priva di moralità. Lo insegnava il “concerto delle grandi potenze” che, con il loro equilibrio, tra il 1815 e il 1914 propiziò in Europa il “secolo della pace”. Nel 1918, quando la catastrofe della Grande Guerra, divenuta mondiale, volgeva al termine, dopo l’appello di Giovanni Giolitti, che nell’agosto 1917 precorse i “quattordici punti” enunciati dal presidente degli USA Wilson, anche Einaudi ammonì: “i popoli vogliono soltanto una specie di pace, quella pace che darà sicurezza e tranquillità a tutti i popoli, una pace piena, fondata sulla giustizia e sulla rettitudine, che sia vera pace e non la preparazione, sotto colore di guerra economica, di un’altra guerra la quale, non ancora rimarginate le ferite sanguinanti della guerra presente, nuovamente distrugga le venture generazioni”: parole scritte mentre imperversava l’epidemia di “febbre spagnola” che in Italia seminò più morti di quelli falciati per causa di guerra e portò via anche Lorenzo, uno dei figli di Luigi Einaudi.
Per operare il salto di qualità verso equilibri nuovi e costruttivi bisognava “distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta. La verità è il vincolo, non la sovranità degli Stati. La verità è l’interdipendenza di popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta. Lo Stato isolato e sovrano perché bastevole a se stesso è una finzione dell’immaginazione, non può essere la realtà”.
Quei moniti, affidati al “Corriere della Sera” e a riviste di livello internazionale rimasero senza ascolto. I fratelli Luigi e Alberto Albertini vennero estromessi dal quotidiano più influente d’Italia, le cui pagine furono precluse a Luigi Einaudi. La libertà di stampa venne soffocata. La sua fine spianò la via ai nazionalismi esasperati, al riarmo, al fatuo mito dell’ “autarchia”, sino al razzismo e al nazional-socialismo, miscuglio di ideologie e fanatismi che precipitarono l’Europa nella seconda fase della nuova Guerra dei Trent’anni (1914-1945) e nella sua distruzione.
(da Il Giornale del Piemonte e della Liguria del 27 ottobre 2024).
l pregio e il “vantaggio” delle meditazioni di Einaudi sta nel fatto che si fondavano sulla scienza delle finanze e sulla padronanza dell’economia politica ma anche sulla consapevolezza, ricordata dal nipote Roberto, che “chi cerca rimedi economici a problemi economici è sulla falsa strada: la quale non può condurre se non al precipizio. Il problema economico è l’aspetto e la conseguenza di un più ampio problema spirituale e morale”. La sua genesi e i rimedi vanno cercati nello studio della storia e nella “politica”. Il riferimento alla storia accompagnò costantemente il lavoro di Einaudi economista. Ne dette saggio dal 1900 con “Il principe mercante. Studio sull’espansione coloniale italiana”. Mentre si discuteva se il commercio seguisse la bandiera o viceversa e se il futuro dovesse comprendere armamento e guerre di conquista, additò l’esempio dell’industriale di Busto Arsizio Enrico dell’Acqua (1851-1910) che si assicurò pacificamente l’esportazione di prodotti tessili, specialmente cotonieri, nell’America meridionale.
Altrettanto indicativi furono i corposi libri einaudiani sulla finanza nello Stato sabaudo. Fondamentale fu per lui il sodalizio scientifico e spirituale con Giuseppe Prato (1873-1928), autore di “Il costo della guerra di successione spagnola e le spese pubbliche in Piemonte dal 1700 al 1713” (ed. Bocca, 1907), frutto della consultazione di “diecine di voluminosi conti” e della compulsazione di “centinaia di migliaia di dati primi” dai quali estrasse la premessa per “uno studio completo sull’intera vita economica, amministrativa, militare, sociale dello Stato, non essendovi quasi aspetto o manifestazione della pubblica attività, a cui non ci richiami qualche speciale capitolo di spesa.” Identica visione universale Prato mostrò di possedere nella “Storia economica sociale della guerra mondiale” (1925) pubblicata dalla Fondazione Carnegie per la pace internazionale, il cui comitato italiano era composto da Einaudi (che nel 1933 pubblicò “La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana”, ed. Laterza), Pasquale Jannaccone e Umberto Ricci.
Identica visione diacronica dei “fatti umani” ispirò i volumi della “Rivista di storia economica” fondata e diretta da Einaudi dopo la forzata chiusura della “Riforma sociale”: una voce di libertà dello spirito negli anni più bui, dal 1936 al 1943. Nel 1942 Einaudi vi pubblicò “Come si debba concepire la pura storiografia economica” di Benedetto Croce e le proprie pagine su “Scienza e storia, o dello stacco dello studioso dalla cosa studiata”. Mentre la guerra imperversava in Europa e stava per investire l’Italia indagò “La scoperta dell’America ed il rialzo dei pezzi in Italia” e recensì un volume di Giovanni Donna su Chieri, così volgendo lo sguardo su “Piccola e media proprietà in un comune del Duecento”. Come un monaco benedettino viveva il presente e il passato remoto in una visione unitaria cogliendovi la centralità dell’uomo e dei suoi “conti” con la “terra”. E intanto salutava la pubblicazione del “Profilo della storia d’Europa” di Luigi Salvatorelli, valutazione ed esposizione “dei quattro millenni di storia del nostro continente”, un “panorama immenso” dal quale scaturiva la speranza di un’età finalmente diversa, di pace e collaborazione tra i popoli europei.
Aldo A. Mola