sabato, Maggio 24, 2025
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Corte dei conti, presidio del buongoverno *

di Salvatore Sfrecola

Frequentemente il cittadino e la stampa, in presenza di sprechi di denaro pubblico o di danneggiamento di beni appartenenti ad una pubblica amministrazione, istintivamente chiedono l’intervento della Corte dei conti che dallo stesso nomen iuris evoca riferimenti lontani. Dacché “conto” è termine di vario significato: i greci lo chiamavano λογοσ, i romani ratio e Curia rationum indica la Corte dei conti dell’Unione Europea.

Rendere il conto è obbligo di chi agisce nell’interesse dello Stato o di altro ente pubblico, ovunque, fin dai tempi più antichi. In Grecia ogni funzionario uscendo di carica doveva presentare il rendiconto dei fondi pubblici di cui aveva avuto la gestione o una dichiarazione scritta che non ne aveva avuto maneggio. Li esaminava un tribunale, quello dei Λογισταί, coadiuvati da dieci συνήγοροι che esercitavano la funzione di pubblico ministero. A Roma, in una delle famose verrine, le orazioni di Marco Tullio Cicerone contro Gaio Licinio Verre, dilapidatore di sostanze pubbliche oltre che responsabile di gravi reati in qualità di Propretore della Sicilia, il grande oratore arpinate affermava, per rendere palese la responsabilità dell’imputato, non audet referre, non osava rendere il conto, perché in tal modo avrebbe svelato meglio di ogni altra indagine la cattiva amministrazione.

Come oggi la conosciamo, la Corte deriva dalla Camera dei conti del Ducato di Savoia, poi del Regno di Sardegna, istituzione risalente alla medievale Curia Regis del Regno di Francia, l’ufficio finanziario più importante sviluppatosi a partire dalla fine del Duecento con l’incarico “di controllare la contabilità di tutti i funzionari, dal cancelliere all’ultimo dei Castellani” (Barbero).

Trasformata per iniziativa di Camillo Benso di Cavour da Camera dei conti in Corte dei conti, con la formazione dello Stato unitario la legge n. 800 nel 1862 istituisce la Corte dei conti del Regno d’Italia, contemporaneamente abolendo le analoghe istituzioni degli Stati preunitari sedenti in Torino, Firenze, Napoli e Palermo. In occasione dell’insediamento, il 1° ottobre 1862, il Governo italiano fu rappresentato dal Ministro delle finanze, Quintino Sella, il quale, rivolgendosi ai magistrati, disse di essere venuto “a inaugurare il primo Magistrato civile che estende la sua giurisdizione a tutto il Regno. Solenne evento … [perché] la creazione di questa Corte… inizia quella unità di legislazione civile che giova ad eguagliare le condizioni dei cittadini, qualunque sia la parte d’Italia ov’ebbero nascimento o tengono dimora”. Con l’enfasi del linguaggio dell’epoca Quintino Sella aggiunge considerazioni che hanno un valore permanente: “altissime sono le attribuzioni che la legge a voi confida. La fortuna pubblica è commessa alle vostre cure. Della ricchezza dello Stato, di questo nerbo capitale della forza e della potenza di un paese voi siete creati tutori. Né ciò basta: ad altre nuovissime nobilissime funzioni foste inoltre chiamati. È vostro compito il vegliare a che il Potere esecutivo non mai violi la legge; ed ove un fatto avvenga il quale al vostro alto discernimento paia ad essa contrario, è vostro debito il darne contezza al Parlamento. Delicatissimo ed arduo incarico, tanto che a taluno pareva pericolo l’affidarlo a Magistrati cui la legge accorda la massima guarentigia d’indipendenza, cioè l’inamovibilità… a voi spetta quindi il tutelare la pubblica fortuna, il curare, la osservanza della legge per parte di chi le debbe maggior riverenza, cioè del Potere esecutivo, senza che abbia a menomare quella energia e prontezza di esecuzione che in alcuni momenti decide dell’avvenire di un paese”.

In poche parole, c’è tutto: il desiderio del Governo di avvalersi della competenza dei giudici contabili perché gli atti dell’Amministrazione siano legittimi, funzionali alle esigenze della politica e rispettosi dei diritti. Con l’invito ad informare il Parlamento di eventuali illegittimità che evidenziassero la necessità di correzioni e di integrazioni. Tutto questo senza che il controllo abbia effetti di rallentamento dell’azione amministrativa.

Di questo chi scrive è buon testimone sui due fronti, dell’Amministrazione e della magistratura contabile, avendo svolto attività di funzionario, di magistrato addetto al controllo e per aver seguito, in qualità di consulente giuridico di numerosi ministri, l’attività dell’amministrazione che si avvale di funzionari generalmente di adeguata professionalità ed esperienza per i quali, tuttavia, soprattutto in occasione di applicazione di nuove norme, l’interpretazione fornita dalla Corte dei conti in sede di controllo preventivo è una guida sicura, capace di limitare il rischio di impugnative dinanzi al giudice amministrativo. 

Nel tempo il numero degli atti sottoposti al controllo preventivo di legittimità è stato notevolmente ridotto essendo stato privilegiato il controllo successivo e concomitante. La Corte, inoltre, a seguito della legge “La Loggia”, di attuazione della riforma del Titolo V della Costituzione rende pareri nelle materie di contabilità pubblica alle regioni ed agli enti locali, molto apprezzata.

La Corte dei conti ha anche sviluppato, oltre alla giurisdizione sui conti che è la più antica delle attribuzioni, quella da cui ripete il nome, la giurisdizione in materia di responsabilità sulle condotte causative di “danno erariale”, pregiudizi arrecati alla finanza o al patrimonio dello Stato o degli enti pubblici. Si tratta essenzialmente di spese inutili, come nel caso di acquisti di beni o servizi non necessari o inadeguati. Immaginiamo un’opera pubblica che appena entrata in esercizio abbia esigenza di manutenzione straordinaria; oppure il danneggiamento di beni del patrimonio dello Stato, come opere d’arte.

Questa giurisdizione secondo alcuni incute timore agli amministratori e ai funzionari. È una valutazione sbagliata. Un bravo funzionario che redige un provvedimento che impegna spese studia normativa e giurisprudenza e decide, magari avvalendosi del parere di uffici interni o dei consulenti dell’Amministrazione, Avvocatura dello Stato e Consiglio di Stato, non ha nessun timore, anche se eventualmente il Procuratore della Corte dei conti, sulla base di una denuncia, sia indotto a fare degli approfondimenti, perché questo è nella logica di un sistema.

L’enfatizzazione del “timore della firma”, dunque, frutto della scarsa conoscenza della realtà, ha fatto sì che in sede parlamentare siano state predisposte delle iniziative legislative gravemente lesive dell’interesse pubblico al risarcimento del danno. Che si vorrebbe fosse limitato rispetto al danno effettivamente causato nonostante sia stata contestualmente prevista un’assicurazione obbligatoria per “chiunque assuma un incarico che comporti la gestione di risorse pubbliche”. È evidente l’illogicità della previsione. Se paga l’assicurazione, perché prevedere una riduzione della somma addebitata? Insomma, la parte maggiore del danno resta sulle spalle della P.A.. Per difendere incapaci e disonesti.

* (articolo destinato a “Intervento nella società”, rivista diretta dal Sen. Riccardo Pedrizzi) 

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