lunedì, Agosto 4, 2025
HomeNEWSFu Vittorio Emanuele III a demolire il regime fascista*

Fu Vittorio Emanuele III a demolire il regime fascista*

di Aldo A. Mola

25-27 luglio 1943: la “svolta”

È scivolato via l’anniversario dei due giorni che a fine luglio 1943 cambiarono la storia d’Italia. Meritano memoria, senza indulgere a dietrologie né alla sopravvalutazione di “informatori”, “servizi segreti” e fantasiosi “complotti” orditi da forze occulte. La maggior parte delle narrazioni, anche quelle lambiccate, si sostanzia nel silenzio sui “fatti”. La verità è che il 25 luglio Vittorio Emanuele III usò i poteri della Corona. Fu un “coup de Majesté”. Revocò Mussolini da capo del governo e lo sostituì con Pietro Badoglio. Due giorni dopo, il nuovo governo, composto da militari e da “tecnici”, azzerò il partito nazionale fascista e tutti i suoi istituti. Era la premessa necessaria per chiedere l’“armistizio” alle Nazioni Unite.

 Il Re mise in atto un progetto coltivato da mesi, preparato nei dettagli e anticipato di un giorno per la richiesta di colloquio da parte di Mussolini, che aveva fretta di verificare le possibili conseguenze dell’ordine del giorno approvato dal Gran consiglio del fascismo nella notte fra il 24 e il 25. I gerarchi chiesero che il re esercitasse i poteri statutari e assumesse il comando effettivo delle Forze armate. Vittorio Emanuele III aveva deciso da tempo, come provano l’immediata nomina del nuovo governo e le misure che questo assunse il 27 luglio e il 5 agosto. Come documenta Aldo G. Ricci nel vol. I dei “Verbali del governo Badoglio” (ed. Presidenza del Consiglio dei Ministri 1994), il resoconto delle sedute è andato perduto, però disponiamo dei loro “ordini del giorno” e dei decreti-legge varati per l’attuazione. Al netto degli errori (anche gravi) istituzionali e politici, le decisioni del 25-27 luglio presuppongono una lunga preparazione, compresa la valutazione di tutte le possibili conseguenze sull’ordine pubblico.

Né “congiura” né “colpo di Stato”

Il pomeriggio del 25 luglio 1943 il sovrano fece quanto previsto dall’articolo 65 dello Statuto: «Il Re nomina e revoca i suoi ministri.» A differenza di quanto poi asserito dal duce e viene ripetuto ancora oggi, il “cambio” non fu né “complotto” né “colpo di Stato”. Nell’avvicendamento, da tempo in preparazione e ignoto solo a Mussolini, che credeva di sapere tutto ma veniva intercettato anche mentre parlava con Claretta Petacci, Vittorio Emanuele III prese le precauzioni dettate dalle emergenze. Mussolini non era solo capo del governo ma anche duce del partito unico, affiancato dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Bisognava scongiurare il rischio di reazioni scomposte. Il PNF aveva quasi tre milioni di iscritti. Alleata della Germania, l’Italia aveva gran parte dei propri militari “oltre i confini”, mentre dall’arco alpino alla Sicilia i tedeschi (sia indivisionati, sia “sfusi”) erano numerosi, bene armati e motivati. Infine lo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio), la netta superiorità dell’aviazione nemica e i suoi pesanti bombardamenti anche su Roma (19 luglio) costringevano alla resa. In via preliminare occorreva dunque un cambio del regime politico, atteso dalle Nazioni Unite, divergenti nelle strategie ma concordi nella decisione di mettere fuori combattimento l’“Italia fascista”. L’avanzata anglo-americana in Sicilia, come un tocco contro l’ampolla, fece precipitare la soluzione da mesi in sospensione. Ma il sospeso era torbido e il soluto non risultò affatto cristallino.

 Il 25 luglio l’unica certezza rimase la Corona, garante dello Stato.

I senatori per un cambio di passo

La “narrazione” identifica la “caduta di Mussolini” (e/o del fascismo) con il voto del Gran consiglio del fascismo che poco dopo le 2 del mattino del 25 luglio 1943, a maggioranza, «invitò il Governo a pregare la Maestà del Re affinché Egli voglia assumere con l’effettivo comando delle forze armate quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono» (v. Box). In realtà la famosa “seduta” fu approdo di uno dei rivoli carsici che facevano emergere un’Italia alternativa al regime di partito unico, da tempo fallito. Un’iniziativa poco nota e tuttavia significativa fu la richiesta rivolta il 22 luglio da sessantatré senatori al presidente Giacomo Suardo di convocare la Camera Alta in seduta plenaria, «data la gravità della situazione», nell’auspicio che «Governo e Popolo si stringano unanimi intorno alla sacra Persona della maestà del Re Imperatore nel proposito incrollabile di resistere ad ogni costo». Quei “patres” chiamarono in causa il “Popolo”. Dettero un’indicazione politica. Tra i firmatari, «tutti presenti in Roma», figurano esponenti della tradizione liberal-nazionale del Senato. È verosimile che la richiesta sarebbe stata sottoscritta anche da Agnelli, Falck, Burgo, Pirelli, Volpi e da un lungo elenco di militari, diplomatici, magistrati, accademici e senatori “per censo”, se anch’essi si fossero trovati nella capitale in quel momento. Sin dal lontano 1924 Vittorio Emanuele III attendeva che una Camera gli fornisse l’appiglio per intervenire da Re costituzionale. I senatori finalmente si mossero. Per l’incalzare degli eventi la richiesta rimase inevasa. Affinché ne restasse traccia per la storia, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, nominato in successione a Suardo il 27 luglio, tre giorni dopo propose al “Cavaliere Duca Don Pietro Badoglio” di renderla pubblica. Il 3 agosto il Maresciallo rispose che «data la mutata situazione politica ed il tempo ormai trascorso» non era opportuno. Tuttavia sarebbe stato meglio farla conoscere per evidenziare la differenza tra il Senato e la Camera “dei fasci e delle corporazioni”.

La Massoneria ebbe un ruolo nelle trame del 25 luglio?

Oltre a quella dei gerarchi, che volevano mettersi le spalle al sicuro, in prossimità del 25 luglio si affacciò una seconda trafila. Ne fu esponente un personaggio pressoché sconosciuto: Domenico Maiocco (Cuorgnè, Torino, 13 giugno 1893-Roma, 17 maggio 1969). Laureato ventunenne in giurisprudenza a Torino, ufficiale nella Grande Guerra, iniziato massone nella loggia “Vita Nova” di Alessandria il 2 maggio 1923, dopo la dichiarazione di incompatibilità tra fasci e logge da parte del Pnf, impiegato all’Istituto nazionale della previdenza sociale, nel 1936 Maiocco fu condannato al confino di polizia perché «socialista, antifascista e massone». Dopo varie traversie, il 7 giugno 1943 fu eletto gran maestro della Massoneria Italiana Unificata (MIU) sorta a marzo con l’obiettivo di superare le antiche divisioni tra Grande Oriente e Gran Loggia d’Italia. Volle dimostrare ai “fratelli” anglo-americani che in Italia esisteva un Ordine liberomuratòrio “regolare”, fedele al Capo dello Stato, come sin dalle origini accadeva in Gran Bretagna e negli USA, i cui “padri fondatori” erano stati tutti massoni, a cominciare da George Washington. Quali “contatti” e quale ruolo effettivo ebbe la MIU? Maiocco contava su “fratelli” leali nei confronti della monarchia, su esponenti del caleidoscopico mondo delle chiese evangeliche e riformate e su massoni italo-americani (Franck Bellini, Charles Fama…), convinti che la rinascita delle logge avrebbe drasticamente ridimensionato il predominio della Chiesa cattolica dopo il Concordato dell’11 febbraio 1929. Lo pensava anche John H. Cowles, “numero uno” del Rito scozzese antico e accettato, che nel dopoguerra ottenne da Alcide De Gasperi la libertà della massoneria in Italia.

 Tra i suoi referenti Maiocco aveva Tito Signorelli, pastore metodista, Dunstano Cancellieri, fondatore del Centro ermetico universale romano, e Placido Martini, arrestato, torturato e infine assassinato con altri venti massoni alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Sulla vera o presunta iniziazione massonica di gerarchi e di “prominenti” dell’antifascismo e dell’affarismo molto ha scritto Paolo Cacace in “Come muore un regime. Il fascismo verso il 25 luglio” (ed. il Mulino). Studioso di talento, Cacace perlustra la tela dei “figli della Vedova” tra i quali include personaggi la cui appartenenza alle logge non è affatto documentata. È il caso di Ivanoe Bonomi, Marcello Soleri, Pietro Badoglio, Raffaele Mattioli («molti sospetti, anche se non vi sono elementi probanti») e persino di Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, che bene conosceva Maiocco ma non aveva nulla da spartire con il massonismo. In “odore di loggia” (formula insinuante ma storiograficamente irrilevante), secondo lui andrebbero contati anche Vittorio Emanuele Orlando, il ministro della Real Casa, Pietro d’Acquarone, e il Re stesso. Fantasie. Cacace osserva che «prove inconfutabili allo stato attuale non esistono». E allora? Insistervi allontana dalle poche certezze acquisite. Tra queste vi è che prima della seduta del Gran Consiglio Maiocco, lo «sconosciuto messaggero del colpo di Stato», fece pervenire al Re l’ordine del giorno Grandi-Bottai, come ha scritto il suo biografo Antonino Zarcone (Annales, 2015). Una prova attendibile? C’è.

 Il ruolo di Maiocco è narrato da Ivanoe Bonomi nel “Diario di un anno: 2 giugno 1943-10 giugno 1944”. Ministro della Guerra nell’ultimo governo Giolitti (1920-1921), suo successore alla presidenza del Consiglio, rimasto ai margini della politica militante dopo la mancata rielezione nel 1924, Bonomi fu, come scrive egli stesso, «nella fortunata condizione di poter assumere la funzione di promotore e di guida» dei partiti e dei movimenti antifascisti, i cui esponenti frequentavano la sua abitazione romana in Piazza della Libertà 4. Non davano nell’occhio, eppure non erano “illustri ignoti”: i liberali Alessandro Casati, Alberto Bergamini (a contatto con il comunista Concetto Marchesi, biografato da Luciano Canfora, che a sua volta fa intravvedere che anche il celebre classicista fu raggiunto da un raggio della “Vera Luce”), i democratici Meuccio Ruini (sicuramente massone) e Pietro Tomasi della Torretta, i democristiani Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro, i socialisti Romita e Vernocchi. Quel comitato informale ipotizzò in primo tempo un governo militare di breve durata, da sostituire con un esecutivo “politico”. Il 14 luglio Bonomi propose a Badoglio di assumere la presidenza di un governo di cui egli stesso sarebbe stato vicepresidente: preludio a un ministero «con uomini politici delle diverse correnti dell’antifascismo: liberali, democratici, cattolici, azionisti, comunisti e socialisti». Bonomi avrebbe indicato i ministri politici, Badoglio quelli militari.

 Alle 17 del 24 luglio, proprio mentre iniziava la seduta del Gran consiglio, Bonomi (come scrive nel Diario) aprì la porta al «noto antifascista, il dottor Domenico Maiocco, piemontese, che è in molta intimità con il quadrumviro De Vecchi». Questi gli avrebbe detto che «nella mattinata Grandi e Federzoni lo avevano persuaso a firmare un ordine del giorno inteso a restituire al re tutte le sue prerogative, invitandolo nel contempo a farne uso per allontanare Mussolini. Il De Vecchi si sarebbe mostrato sicuro della vittoria ed avrebbe preconizzato, come conseguenza del voto, il ritiro di Mussolini e l’incarico ai presentatori dell’ordine del giorno di costituire un Governo nuovo». Questo «avrebbe fatto appello alla concordia nazionale, invitando i maggiori uomini dell’opposizione a dare la loro collaborazione. Il De Vecchi non si sarebbe fatta alcuna illusione sulla mia risposta, pure desiderava di farmi sapere preventivamente che mi sarebbe stato rivolto un invito amichevole». Nel Diario Bonomi scrisse di aver risposto a Maiocco che quanto da lui riferito gli «pareva un romanzo». L’ipotesi «di un governo Grandi-Federzoni-De Vecchi liquidatore del fascismo mussoliniano era sogno di menti oscurate».

 Esaminate le diverse prospettive del più che probabile governo Badoglio, appena appreso della revoca di Mussolini il comitato antifascista condivise il parere, non proprio eroico, di De Gasperi: liquidato il duce, era necessaria la richiesta di armistizio agli anglo-americani. Associarsi al governo comportava di condividere il passivo della resa. A suo avviso, questa doveva ricadere solo sul Re: capro espiatorio. Di lì la previsione di un «dissidio insanabile fra le aspirazioni del paese e la volontà della Corona».

La “defascistizzazione” fu opera del Re e di Badoglio

Il 27 luglio Bonomi presiedette due riunioni dei sei partiti antifascisti che “agit[arono] molti problemi senza prendere conclusioni concrete”, andò a colloquio con Badoglio e ne trasse «una buona impressione». Il Maresciallo non aveva perso tempo. Lo stesso giorno Badoglio fece il necessario, senza attendere suggerimenti dei partiti appena albeggianti. I regi decreti-legge del 27 luglio, pubblicati nella “Gazzetta Ufficiale” il 2 agosto, vanno ricordati: «soppressione [sic] del Partito nazionale fascista, del Gran consiglio del fascismo e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; divieto di fabbricazione e uso di bandiere e emblemi di associazioni e partiti politici (non tradotto in decreto legge); abrogazione delle norme contenenti limitazioni in dipendenza dello stato di celibe; controllo della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; conferma dello stato di guerra; movimento di prefetti (collocamento a riposo o a disposizione di quelli nominati per meriti fascisti) e altre misure urgenti per i ministeri di Guerra, Marina e Aeronautica.»

 In 48 ore il governo Badoglio varò la “defascistizzazione” dell’Italia. Deliberò anche lo scioglimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, istituita con la legge 19 gennaio1939, n. 129: una decisione apparentemente “dovuta” ma al tempo stesso incauta. Lo evidenziò lo schema di decreto legislativo preparato per la seduta del 9 settembre (che però non ebbe luogo, come ricorda Ricci) e non fu più ripresentato. Esso ammise che «la chiusura della XXX legislatura e la carenza di uno dei due rami del Parlamento», derivante dallo scioglimento della Camera elettiva, «rendono impossibile, per ora, l’esercizio della funzione legislativa da parte del Senato e, d’altra parte, la ripresa dei lavori parlamentari non potrà non essere preceduta dalla emanazione di nuove norme intese a disciplinare anche la materia suddetta». Il governo avocò il potere di legiferare “per causa di guerra” anche in circostanze e per materie nelle quali «la causa di guerra non influisce menomamente».

 La sospensione del Parlamento sovraespose la Corona, chiamata ad affrontare la seconda e non meno impegnativa partita dell’estate 1943: uscire dal conflitto mentre, con il pretesto di soccorrerla, altre divisioni germaniche vi irrompevano in assetto di guerra. Ignara delle decisioni politiche e militari assunte dalle Nazioni Unite molti mesi prima dello sbarco in Sicilia, l’Italia post-fascista riteneva di poter avviare trattative armistiziali e di avere diritto a riconoscimenti commisurati al suo sostegno alla guerra contro la Germania, come prospettato dall’ambigua Dichiarazione di Quebec del 18 agosto 1943. Invece l’Italia cozzò con l’imposizione della “resa senza condizioni”, decisa nella conferenza di Casablanca (14-26 gennaio), il cui peso venne scaricato sulle spalle di Vittorio Emanuele III, come rumorosamente chiesto dall’ala anti-monarchica più intransigente del comitato interpartitico presieduto da Bonomi. Cominciò ad affiorare l’intimazione di immediata abdicazione del sovrano. Essa divenne assordante dopo l’annuncio dell’“armistizio” e il trasferimento del Re e del governo da Roma a Brindisi il 9 settembre: evento che merita l’esame obiettivo tuttora eluso dai “media” e dalla generalità degli “storici”.

Aldo A. Mola

BOX

QUEL CHE DICE E QUEL CHE NON DICE

L’ORDINE DEL GIORNO GRANDI-BOTTAI-FEDERZONI

L’ordine del giorno approvato da 19 Consiglieri sui 28 presenti alle 2:20 del 25 luglio 1943 recita: «Il Gran Consiglio del Fascismo […] esaminata la situazione interna e internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza e la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Governo a pregare la Maestà del Re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia per la salvezza e l’onore della Patria assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre Istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.

 Dunque i gerarchi non proposero affatto la revoca e la sostituzione di Mussolini da capo del governo, né la formazione di un nuovo governo, né la demolizione del regime di partito unico, né, meno ancora, l’armistizio separato. Proposero invece di “attribuire” alla Corona, al Gran consiglio (cioè a se stessi), al governo (così com’era: zeppo di mediocri esponenti del Partito fascista) e al parlamento (con la “Camera dei fasci” dal 1939 “nominati” anziché “eletti”) l’esercizio delle loro competenze.

 Essi invitarono altresì il Re ad assumere l’effettivo comando delle forze armate, mai personalmente esercitato da alcun sovrano. Nel 1940 lo volle Mussolini, capo del governo e titolare dei tre ministeri militari. Perciò il duce, convinto che dopo l’ordine del giorno non fosse cambiato nulla di sostanziale, chiese udienza a Vittorio Emanuele III. Ma il sovrano, che aveva già deciso prima della riunione del Gran Consiglio, lo fece “fermare” (non “arrestare”). La sera stessa Mussolini dichiarò per scritto di essere pronto a collaborare con il nuovo governo.

* (Editoriale pubblicato da Il Giornale del Piemonte e della Liguria del 3 agosto 2025)

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Most Popular

Recent Comments

Aldo Ammendola on Trent’anni senza Babbo Italo
Marco Perletta on Vincenzo Cuoco (1770-1823)
Gianluigi Biagioni Gazzoli on Turiamoci il naso e andiamo a votare
Michele D'Elia on La Domenica del Direttore
Michele D'Elia on Se Calenda ha un piano B