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L’inefficienza dell’apparato di Governo ai tempi del coronavirus

L’inefficienza dell’apparato di Governo ai tempi del coronavirus

di Salvatore Sfrecola

Ne scrivono tutti del decreto-legge “rilancio”, approvato dal Consiglio dei ministri il 13 ma non ancora in Gazzetta in attesa del “bollino” della Ragioneria Generale dello Stato, un provvedimento omnibus, 256 articoli, 495 pagine, dove c’è di tutto, per tutti, riprendendo, correggendo e integrando anche i precedenti 11 provvedimenti d’urgenza emanati dal 23 febbraio ed i numerosi decreti del Presidente del Consiglio, quelli che Giuseppe Conte richiama spesso. “Ho firmato un d.P.C.M.”, lo si sente dire, come se fosse il decreto di un altro. Immette 55 miliardi nel sistema economico, in pratica l’importo dei debiti della Pubblica Amministrazione deve ancora alle imprese, una somma che sarebbe stato opportuno pagare in via prioritaria perché quei crediti hanno tenuto in sofferenza molte imprese così concorrendo all’impoverimento del tessuto industriale del Paese.

Questo decreto, come gli altri che lo hanno preceduto sono l’immagine delle gravi e risalenti carenze della politica e di un’Amministrazione, da tempo incapace di prevedere e realizzare gli obiettivi indicati dall’indirizzo politico con riferimento alle varie politiche pubbliche, con procedure semplificate, ma nel rispetto dei principi di legalità, efficienza, efficacia ed economicità, in assoluta trasparenza.

I tempi delle decisioni denunciano l’incertezza del Governo. Allertato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (O.M.S.) il 30 gennaio 2020, sulla base di una “dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus (PHEIC)”, il Governo, che ha presso l’O.M.S. un proprio rappresentante, probabilmente era stato già informato del pericolo che si deve ritenere abbia sottovalutato. Se non lo ha fatto va immediatamente cacciato.

Ammesso, tuttavia, che avesse avuto notizia dell’evento solo il 30 gennaio, avendo dichiarato il 31, per sei mesi, lo “stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, il Governo ha atteso ben 22 giorni per emanare il primo di una serie di decreti-legge, cui sono seguite numerosissime le norme di dettaglio. Gli uni e le altre oggetto di critica di costituzionalisti illustri, da Cassese a Guzzetta, a Zucchelli, preoccupati, in primo luogo, del ruolo marginale riservato alle Camere e quindi del futuro della democrazia. “Il Parlamento non tocca palla”, si è letto, perché chiamato a convertire in legge decreti senza possibilità di emendarli, avendo il Governo posto, al momento del voto, la questione di fiducia. E continua aspra la polemica tra i giuristi. Anche con riferimento al quadro normativo, complesso, a tratti confuso e contraddittorio, per l’intervento delle regioni che hanno rivendicato, in relazione alla conoscenza della specifica situazione locale, il diritto di scelte anche in deroga alla disciplina statale, come nel caso di trasferimento nelle “seconde case”.

In questo confuso quadro normativo appesantito dalla corposità dei decreti, l’ultimo decreto del Presidente del Consiglio è di ben 70 pagine,  gli italiani, tuttavia, hanno dimostrato “senso di responsabilità”, come ha riconosciuto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del messaggio per il 1° maggio, nel quale ha richiamato l’esigenza che dalle istituzioni di governo vengano indicazioni “ragionevoli e chiare”. Un garbato, eloquente richiamo che significa che le norme spesso non sono state né ragionevoli né chiare.

Nel frattempo, mentre medici ed infermieri hanno dimostrato un’abnegazione al limite dell’eroismo, si è assistito ad una straordinaria prova di inefficienza in sede di ricognizione dell’occorrente, dalle mascherine ai ventilatori polmonari per i reparti di terapia intensiva, risultati insufficienti rispetto all’emergenza, ma anche nell’ordinario. Si è sentito dire che nelle Eolie, che in vari periodi dell’anno ospitano molte migliaia di vacanzieri, vi è un solo letto dedicato alla terapia intensiva.

Quanto alle mascherine, che sulle prime non hanno avuto neppure gli operatori sanitari, a lungo introvabili nelle farmacie il Commissario straordinario per le occorrenti forniture, ai primi di maggio ha manifestato il dubbio che qualcuno abbia speculato sul dramma della gente. Lascia interdetti che non l’avesse previsto.

Non solo, ma ci si è accorti che mancavano ovunque anche medici e infermieri (dopo anni in cui le università hanno strenuamente difeso il numero chiuso perché i medici erano troppi!), per cui si è ricorsi ad un reclutamento straordinario a tempo di medici senza specializzazione. È la prova che questo Paese, a livello di istituzioni di governo, non ha capacità di monitoraggio dei fenomeni sociali per prevedere le occorrenze ordinarie, immaginare ragionevolmente quelle straordinarie e predisporre le misure del caso.

E così, mentre la contabilità dei contagiati, dei ricoverati e dei deceduti metteva in evidenza giorno dopo giorno la capacità diffusiva del contagio, è cominciato il rimpallo delle responsabilità. Tra Stato e Regioni, innanzitutto, in relazione alla “tutela della salute” che è materia di “legislazione concorrente”, ai sensi dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, a seguito di quella sciagurata riforma del Titolo V, approvata nel 2001, oggi ripudiata da tutti, che attribuisce allo Stato le norme di principio e alle Regioni quelle di dettaglio, una linea di confine del tutto evanescente, come dimostra il rilevante contenzioso che ne è seguito dinanzi alla Corte costituzionale.

I difetti del nostro sistema amministrativo sono noti da tempo. Con le sue procedure farraginose, intessute di pareri, concerti, intese, accompagnate spesso da documentazione inutile, nell’emergenza si provvede “in deroga”, ricorrendo a Commissari Straordinari, come nel caso del ponte Morandi di Genova. Mentre i Ministri, che pur hanno a disposizione strutture ministeriali con funzionari di elevata professionalità, ricorrono a Comitati di esperti e Task force. Sembra siano più di 450 gli “esperti” impegnati dal Presidente del Consiglio e dai ministri, spesso persone che non hanno mai messo piede in un ufficio, quindi non in condizione di sapere cosa e come si deve semplificare. Mai, inoltre, risulta sia stato interpellato il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (C.N.E.L.) che è organo “di consulenza delle Camere e del Governo” (art. 99, comma 2, Cost.).

Dov’era la politica negli anni scorsi? Dove il Governo, dove il Parlamento cui spetta definire l’ordinamento delle amministrazioni e le regole del loro funzionamento?

L’Italia è un grande Paese, con una storia amministrativa straordinaria come dimostra l’unificazione del Paese dopo il 1861 attraverso infrastrutture di ogni genere in un territorio difficile per la sua orografia, e la ricostruzione dopo i danni provocati dalla Prima e dalla Seconda Guerra Mondiale. Quell’esperienza professionale abbiamo smarrito a causa di una classe politica progressivamente decaduta che ha trascinato nel baratro dell’inefficienza anche la burocrazia, nella quale il merito non è più un requisito per fare carriera e assicurare il “buon governo”.

Il nuovo decreto stanzia 55 miliardi. Giungeranno a destinazione in tempi brevi? L’esperienza, lo ha riconosciuto lo Presidente del Consiglio nella conferenza stampa di presentazione, non è stata finora positiva. Complicazioni varie hanno rallentato l’erogazione delle provvidenze creando disagio e facendo montare la rabbia. I cittadini non possono attendere oltre, artigiani, piccoli e medi imprenditori sono letteralmente alla fame. Come i professionisti, ingegneri, avvocati, commercialisti i cui studi sono desolatamente vuoti. Sabino Cassese, giurista insigne ed ex Giudice costituzionale, ha scritto sul Corriere della Sera che “l’azione di governo ha un ciclo oscuro, vive alla giornata, non sceglie né gli strumenti né i tempi giusti”. Un giudizio impietoso, ma meritato.

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