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1821 i patrioti incontrano un poeta

di Salvatore Sfrecola

“Forse non è ancora raggiunta la consapevolezza piena del Risorgimento come eredità storica condivisa; al contrario di quanto accade agli inglesi, che si riconoscono nella secentesca rivoluzione gloriosa, agli americani uniti dalla memoria dell’indipendenza nazionale dal 1776, ai francesi che richiamano con rigore la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, ai tedeschi che molto prima di Hitler hanno proiettato, anche in modo equivoco, nel Medioevo l’autenticità germanica, l’unità ideale della Germania”. Lo scrive Lucio Villari in apertura di un suo “Bella e perduta, l’Italia del Risorgimento”, che ci induce al riflettere sulla realtà di oggi, a 200 anni dai primi moti risorgimentali, da quelle iniziative che spesso sfumano nella memoria, forse perché allora non ebbero successo e preferiamo assorbirle nelle successive gesta di statisti e soldati che avrebbero portato all’istituzione del Regno d’Italia, esteso poi a Trento e Trieste.

Eppure, quei primi eroi del nostro Risorgimento hanno avuto la fortuna di incontrare un poeta, Alessandro Manzoni. E fu “Marzo 1821”, “l’unica grande poesia patriottica di argomento contemporaneo”, come ha scritto Attilio Momigliano, versi che quanti, come me, hanno frequentato la scuola quando ancora si studiavano e s’imparavano a memora le poesie, ricordano per i valori che evocano, le aspettative e le speranze che hanno suscitato. Perché il Risorgimento ha unificato le menti ed i cuori di una minoranza. Perché la scintilla che ha attizzato il fuoco 200 anni fa, e che in molti di noi arde ancora, non poteva essere dei più, di quanti scontavano secoli di occupazioni straniere. Francesi e spagnoli, ma anche austriaci, non solamente avevano guerreggiato fra loro nelle nostre “belle contrade”, per affermare la supremazia di re e imperatori assisi a Parigi, a Madrid o a Vienna, ma mantenevano sui troni di regni, principati e ducati “italiani” degli autentici fantocci ai quali tuttavia il popolo era in qualche modo fedele, mantenuto accuratamente nell’ignoranza più crassa e umiliato da lavori defatiganti nelle campagne, nelle città e nei borghi più isolati.

La frase volgare “Franza o Spagna purché se magna” è l’epitaffio degli italiani da secoli calpesti, derisi perché non un popolo, perché divisi, come impietosamente ci ricorda l’Inno nazionale. In queste condizioni è evidente che l’Italia poteva divenire uno stato unitario soltanto per l’iniziativa di poche personalità di pensiero e di azione che 200 anni fa fallirono proprio perché il popolo non poteva comprenderne gli ideali, perché il sentimento di italianità che nel corso dei secoli si era alimentato del pensiero di grandi scrittori e poeti lo percepivano pochi, quelli che sapevano leggere.

La scintilla era scoccata a Napoli sul finire del secolo XVIII. Era il terreno ideale, una città, un ambiente culturale elevato che sente il giogo della dominazione spagnolesca ottusa, alla quale il popolo riesce a sopravvivere in virtù di una innata capacità di distrarsi dalle miserie quotidiane rifugiandosi nello scherno, nei canti, nel ballo. Scrive Vincenzo Cuoco “saremo sempre servi degli stranieri finché crederemo che essi siano i nostri maestri”. Non c’era certo bisogno di francesi e spagnoli e men che meno di austriaci per il Paese di Dante, Guicciardini e Vico. La Storia del reame di Napoli di Pietro Colletta, il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli di Vincenzo Cuoco suscitano interessi a Milano, in Monti e Manzoni. Cuoco manifesta la “necessità di un rapporto autentico tra le idee politiche e il popolo che deve comprenderle e farle proprie”. Un’illusione amara, come sperimenteranno sulla loro pelle quanti, seguaci soprattutto di Mazzini, penseranno, innalzando il vessillo ideale dell’Italia unita, di trovare accoglienza tra la gente, che fosse pronta a scendere in armi contro i regimi illiberali, a Napoli, come a Torino. I moti del 1820-1821 saranno un fallimento dal punto di vista pratico ma innesteranno quel sentimento patriottico che pochi, ma determinati, porteranno avanti nel corso degli anni successivi e che crescerà via via fino a divenire realtà, quando il moto risorgimentale incontrerà personalità capaci di costruire in concreto una iniziativa politica che si impone sul piano internazionale, grazie alla disponibilità della antica Casa regnante dei Savoia che, tra Francia e Piemonte, aveva da secoli optato per l’Italia e trasferito, fin dal 1563, per iniziativa del Duca Emanuele Filiberto, il generale vincitore a San Quintino (10 agosto 1557),  la capitale del Ducato da Chambery a Torino.

È un fatto incontestabile con il quale tutti devono fare i conti. Mentre i Borbone, il Papa, i vari Arciduchi e Duchi, forti delle baionette austriache, negano le libertà costituzionali richieste dalla borghesia, prima Carlo Alberto poi Vittorio Emanuele II nel piccolo Piemonte, la “monarchia rappresentativa” retta dello Statuto delle libertà, assicurano ospitalità a tutti coloro i quali erano mossi da desiderio di “fare” l’Italia. Non hanno senso, dunque, sono contro la verità le iniziative, cosiddette neo borboniche, ma soprattutto antitaliane, ispirate da un sentimento di riscatto del Sud rimasto arretrato nello sviluppo del Paese nel suo complesso. È evidente, ed era chiarissimo agli uomini del Risorgimento, anche a Cavour che molti citano a sproposito perché pochissimi lo hanno letto, che per lo sviluppo d’Italia nel suo complesso sarebbe stato necessario il decollo dell’economia meridionale, assistita da una rete infrastrutturale adeguata, che avrebbe consentito il trasferimento delle merci e la circolazione delle persone, tenuto conto anche che, fin da allora, siamo nel 1846, il Conte, piemontese ma italiano nell’animo, vedeva l’Italia come un Paese dal grande straordinario sviluppo economico e turistico.

Il Sud che non è riuscito a decollare deve guardare dentro sè stesso, alla sua classe dirigente, evidentemente inadeguata perché abituata per secoli a servirsi del potere fingendo di servire il sovrano di turno, e che quindi non ha trovato di meglio, come insegna Il Principe di Salina, di continuare d’intesa con chi comandava a Roma, fosse Francesco Crispi, siciliano, il Cavaliere Benito Mussolini o i partiti che nel dopoguerra, con alterni successi, hanno mietuto voti raccolti dalle varie organizzazioni extralegali, tanto per usare un eufemismo.

In questo contesto era impossibile modellare lo sviluppo del Mezzogiorno sull’esempio delle regioni del Nord, con diversa tradizione ed esperienza, in un contesto ambientale che privilegiava la fabbrichetta anziché l’agricoltura o l’agriturismo. Una scelta sbagliata, perché il Sud che dispone di una rigogliosa attività agricola (ancora per dirla con Cavour) e vive sul mare, di pesca e di traffici, non è l’appendice mitteleuropea che, giustamente, piace a lombardi e veneti. Ma questa e quella Italia sono espressione di una unica realtà che governi seri, assistititi da una classe dirigente locale all’altezza del ruolo, farebbero decollare. Invece, siamo in presenza di un diffuso degrado del Sud, dove anche l’offerta turistica, certamente pregevole per il contesto ambientale ed umano, non è capace di misurarsi con effetti positivi con la concorrenza, spietata, di alcune realtà mediterranee, in primo luogo della Grecia, accogliente anche per ragioni storiche che tutti conosciamo.

L’Italia per diventare grande e ricca deve preoccuparsi della ricchezza delle singole regioni. “Padani” da un lato e “neoborbonici” dall’altro sono due espressioni miserevoli che giustificano l’arretratezza di secoli, che, va detto con estrema chiarezza, colpisce alcune aree del Nord e del Sud. Sono passati 200 anni e il pensiero di Manzoni che si era entusiasmato all’idea che Carlo Alberto e i suoi soldati “tutti assorti nel nuovo destino,/ certi in cor dell’antica virtù,” entrasse in Lombardia e la liberasse dal giogo austriaco e così “non fia loco ove sorgan barriere/ tra l’Italia e l’Italia, mai più!”. Una speranza che nel 1821 non si è realizzata ma che successivamente è diventata una realtà e progressivamente, grazie a uomini di idee diverse L’Italia si è unita nel 1861. Voglio ricordare ancora una volta Mazzini, repubblicano, ma prima di tutto desideroso di fare l’Italia, il quale prima scrive a Carlo Alberto poi a Vittorio Emanuele II per sollecitarli a mettersi alla testa del moto risorgimentale. Sono realtà che non possono essere ignorate. Per fare onore ai patrioti del 1820-1821 e prima ancora ai liberali della repubblica napoletana del 1799 il Sud deve essere consapevole di questa realtà e deve saper esprimere una classe dirigente all’altezza del ruolo, non continuare a recriminare per l’intervento dei “piemontesi”, che erano italiani, contro un brigantaggio che era una condizione endemica, nell’occasione alimentata e foraggiata dai regnanti destituiti e da potenze straniere che avevano compreso il pericolo, nel Mediterraneo, se l’Italia fosse diventata “grande” come Cavour desiderava e sperava.

Questi antiitaliani continuano dopo secoli di servaggio a farsi strumento dei nemici del nostro Paese.

Quanto all’economia manifatturiera è assurdo che le arance siciliane o calabresi, prodotto straordinario, divengono marmellata in Lombardia o in Trentino quando sul posto, a chilometro zero, come si usa dire, insieme alla trasformazione di altri prodotti agricoli darebbero diffusa ricchezza. Così come l’artigianato e, in genere, l’industria manifatturiera. Come il turismo, che ha un indotto straordinario, che nella visione della politica spesso è trascurato. Chi trascorre le vacanze nelle regioni stupende del Sud porta con sé al ritorno a casa, ed è importante specie se la casa è lontana, in un altro stato o in un altro continente, qualche prodotto tipico di quelle regioni, il vino, l’olio, la pasta, i dolci. Questi turisti visitatori sono degli ambasciatori d’Italia e di queste regioni In Europa e nel mondo. Il Sud che non è decollato non deve rivendicare glorie borboniche che non esistono o che sono talmente modeste da non meritare un ragionevole apprezzamento, quanto al funzionamento delle istituzioni e al benessere delle popolazioni, ma deve rivendicare la propria tipicità all’interno dello Stato nazionale, quello Stato che Cavour voleva fosse “grande”, anche perché pensava diventasse la porta d’Europa sul Mediterraneo attraverso i grandi porti (allora) di Napoli e Palermo. Oggi questi porti sono ignorati dai grandi traffici. Non hanno le strutture per far fronte alla movimentazione delle grandi navi portacontainer e se le avessero i containers resterebbero troppo tempo sulle banchine in mancanza di collegamenti con autostrade e ferrovie.

Che fa la classe dirigente meridionale? Evoca il “Paradiso dei Borbone” per nascondere la sua incapacità di immaginare e realizzare il futuro. Ma si consola evocando e maledicendo “l’occupazione” dei piemontesi, la Mafia, la Camorra, la Ndrangheta. È sempre colpa degli altri. Come nelle partite di calcio quando chi perde evoca la sfortuna o gli “errori” dell’arbitro. Mai che qualcuno dica che, in effetti, gli altri sono stati più bravi, perché corrono di più e hanno il senso della squadra, passano la palla al collega in posizione di andare a rete anziché tenerla incollata al piede fino a farsela togliere.

No, cari fratelli italiani, così non va! Ognuno sia orgoglioso della propria terra, del proprio borgo o della propria città, realtà storiche, culturali e ambientali preziose che concorrono alla realtà d’Italia nella prospettiva di “un grande Stato”. Sta a noi oggi realizzare o meno il sogno di Cavour.

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