mercoledì, Aprile 24, 2024
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Viva Verdi: Massoneria, musicisti e Risorgimento

di Dora Liguori

Parlando di Risorgimento, Unità e affini, in primis e a ragione, ci si riferisce sempre ai suoi principali protagonisti, quali: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini etc. E gli altri?

Ad esempio tornerebbe interessante, sia pure sinteticamente, spendere due parole per far conoscere e analizzare, l’apporto che i musicisti italiani ebbero a dare al Risorgimento, apporto che non può definirsi fondamentale, ma senz’altro significativo.

Volendo procedere a questa conoscenza si deve, però, prioritariamente, riferirsi alla massoneria moderna, che, nata – nel 1717- era subito divenuta un polo d’attrazione per gli artisti, in particolare per i musicisti. E proprio per spiegare questa predilezione occorre soffermarsi su un certo parallelismo esistente fra musica e massoneria, un qualcosa che, a prima vista potrebbe sembrare complicato ma non impossibile! Pertanto, volendolo fare, occorre con estrema cautela procedere nell’individuazione della comune sostanza misteriosa ed esoterica che compone il “mistero” musica raffrontandolo con alcuni principi fondamentali, sui quali poggia anche l’”Arte reale”. Ad esempio, in ambo le due “religioni”, poiché sia la musica che la massoneria possono più o meno definirsi tali, esiste l’interdizione e l’impermeabilità alla conoscenza per chi non fa parte del circolo degli eletti o degli illuminati. Ad esempio Mozart, appartenne a quella branchia della massoneria definita: gli “Illuminati di Baviera”.

La musica, infatti, si avvale di un linguaggio criptico e decifrabile solo dagli “iniziati”; ma questo neppure è sufficiente per ottenere godimento dalla musica, poiché decifrare o leggere le note non consente affatto di avere un effetto sonoro tale da farne carpire sia l’“armonia” che la sostanzia; per farlo occorre usufruire dell’apporto di altri mezzi (gli strumenti) che, a sua volta, i “fratelli”(gli strumentisti), possono giungere a saper usare, soltanto dopo vari stadi di iniziazione, studio e superamento di esami. In qualche misura la stessa cosa avviene nel percorso massonico.

Procedendo sempre nel nostro simbolico viaggio dobbiamo rilevare che, essendo il linguaggio della musica non verbale, con questi vari passaggi iniziatici, si riesce alfine ad essere condotti al primo degli stadi di “conoscenza”: il piacere uditivo della musica. Ma, da questo momento inizia, e solo per chi ha la grazia d’essere invaso dalla luce, un cammino di simbiosi stessa con la musica, che, tanto più ci appartiene e diviene chiaro, quanto più ci si va ad avvicinare all’Essere Supremo o “Grande Architetto”. Infine, si addiviene alla perfezione di ascoltare i suoni senza bisogno di mediazioni.

Il difficile cammino per il pieno possesso della musica, o della ricerca massonica, termina, appunto, con il raggiungimento della “perfezione” che consiste nell’ottenimento di un equilibrio circolare tra Spirito e Grazia; infatti il musicista raggiunge la perfezione conoscitiva musicale allorché può ascoltare la musica all’interno di se stesso, senza bisogno di strumenti appositi. Solo allora, e attraverso l’altissimo grado di grazia spirituale raggiunto, egli sarà in grado di colloquiare e sentirsi in spirituale simbiosi, oltre che con la musica, con Dio

L’immagine metafisica di iniziazione a questo percorso è, in parte, mirabilmente descritto nell’opera di Mozart “Il flauto Magico”; mentre il massimo esempio del raggiungimento di simbiosi e perfezione nella conoscenza musicale è rappresentato dal musicista Beethoven che poté comporre la “nona sinfonia”, senza bisogno di mediazioni sonore (il musicista era completamente sordo), semplicemente ascoltando la musica che gli risuonava all’interno. E quindi, era addivenuto al raggiungimento del più alto livello di percezione spirituale, quello che consente all’uomo, privato da distrazioni esterne, di accedere ad un linguaggio assoluto appartenente, riteniamo, soltanto a Dio.

A questa prima, ma non certo esaustiva chiarificazione sul rapporto che lega massoneria e musica, occorre aggiungere qualcosa di molto più prosaico e consistente, ovvero: i musicisti, nel perenne bisogno ch’essi hanno d’esprimere compiutamente la loro arte, debbono essere accompagnati, nel percorso iniziale (dicasi carriera), da “fratelli maggiori” e potenti che possano autorevolmente introdurli in un mondo, altrimenti ostico per un’artista alle sue prime armi.

In forza di queste due logiche, non contrapposte né riduttive del genio, troviamo, fra i musicisti aderenti ai vari ordini o logge di massoneria, alcuni fra i più importanti: Handel, Geminiani (colui che fonderà la prima loggia italiana) Gluck, Haydn, Mozart, Beethoven, Liszt, tanti altri e…Verdi.

Tralasciando il discorso massoneria, e prima di parlare di Giuseppe Verdi, riferendoci all’apporto dato dalla musica al risorgimento, dobbiamo subito sfatare un luogo comune: non fu Verdi il primo musicista che prestò la sua musica ai furori risorgimentali, poiché, a precederlo con impegno ed opere, ci furono Pacini, Mercadante e lo stesso Donizetti che, ritenuto, da tutti, uomo poco incline alla politica era, invece, impegnato in prima persona, al punto di mettere la propria casa, a Parigi e Vienna, a disposizione per gli incontri segreti della “Giovine Italia”.

Ma, detto questo, non fu neppure Donizetti il primo, infatti a sostenere d’essere l’iniziatore c’era Rossini che, ampiamente, ne vantava la primogenitura. E, nell’affermarlo, aveva abbondantemente ragione. Infatti fu proprio a Venezia che il 22 Maggio 1813, durante la prima rappresentazione dell’“Italiana in Algeri”, il pubblico veneziano udì dalle labbra della protagonista le seguenti, quanto mai profetiche parole: “Pensa alla patria e intrepido, vedi per tutta Italia rinascere gli esempi di ardire e di valor. Quanto valgan gli italiani al cimento si vedrà”.

Vezzo di Rossini, in vecchiaia, era, appunto, quello di vantarsi per queste coraggiose parole; nella realtà il giovane Gioacchino, nel 1813, a dirle, non aveva rischiato nulla, in quanto il dominio austriaco, a Venezia, sarebbe tornato, nel 1815, dopo il Congresso di Vienna. Comunque, il figlio del rivoluzionario Giuseppe Rossini, detto “Vivazza”, memore degli ardori patriottici paterni, ebbe, di certo, il merito d’essere fra i primi a ricordare e quindi a identificare gli italiani, quali membri appartenenti ad una stessa nazione: l’Italia.

Tralasciando Rossini, colui che invece scatenò, davvero e suo malgrado le folle, nonché si vide censurare pagine della sua musica per la sostanza ferocemente rivoluzionaria che contenevano, fu il più pacifico di tutti, il catanese Vincenzo Bellini. Il grande musicista nella sua breve ma splendida carriera, pur essendo sempre allergico a qualsiasi azione politica, proprio perché lontano da introspezioni e camarille patriottiche, fu come si suol dire “messo in mezzo” ad opera dei suoi librettisti. Infatti, il musicista, poco accorto, non s’accorse di collaborare, per le sue opere più famose, con due librettisti ch’erano entrambi d’estrazione liberale: Felice Romani e il conte Carlo Pepoli. Quest’ultimo, massone e ardente patriota, quando collaborò con Bellini per “I Puritani, era esule a Parigi, proprio perché riconosciuto autore di comprovate attività sovversive che gli erano valse il bando dall’Italia. Fu così, che, il povero Bellini, incolpevolmente, si ritrovò nel ruolo, non gradito, di sobillatore di folle.

Per meglio esplicitare le idee di Bellini occorre ricordare come il musicista catanese fosse stato aiutato, nei suoi studi, e beneficiato dai Borbone. Pertanto nulla aveva da spartire con i liberali. E quando il suo inno guerriero “Guerra, guerra” della Norma, una sera del 1831, simbolo di rivolta, scatenò un pandemonio alla Scala, (non alla prima che venne volutamente e dietro pagamento di una tale contessa, fischiata, ma alle repliche), il primo a dolersene fu proprio lui, anzi, quasi gli venne un colpo.

L’inno di guerra di Norma, nel giro di pochi giorni, fu adottato dai liberali italiani che, usciti negli anni trenta alquanto malconci da una serie d’iniziative rivoluzionarie finite male, trovarono in quell’inno, barbaro, splendido e guerriero, il modo di sfogarsi contro gli austriaci. Al musicista, come ovvio, non mancarono delle noie da parte della polizia e pare probabile che, egli, per togliersi almeno momentaneamente dai fastidi, per questo abbia accolto l’invito di altri teatri all’estero.

Dopo Londra, preso alloggio a Parigi, sempre a causa della sua trascinante musica, e questa volta anche delle parole che ci metteva il citato Pepoli, il problema si ripresentò, come sopra detto, con i “Puritani”. Alla prima parigina dell’opera, il duetto fra basso e baritono, quello che chiude il secondo atto dell’opera “Suoni la tromba, e intrepido io pugnerò da forte”, provocò un vero delirio nel pubblico, composto soprattutto di esuli italiani, i quali, fra sventolii di bandiere tricolori, consacrarono Bellini, che liberale non era, quale anima musicale dei liberali.

Il famigerato duetto dei “Puritani” fu prontamente proibito in Italia ma Bellini non ebbe tempo a dolersene poiché, pochi mesi dopo lo strepitoso successo, mori giovanissimo, nel ’35, a Parigi.

Questi i precedenti risorgimentali di alcuni musicisti! E, partendo da tale panorama si trovò ad operare colui che divenne, morto Bellini, il simbolo musicale (e questa volta a ragione) per l’impegno che ebbe a svolgere tra le fila liberali del Risorgimento.

Parlando, infatti, di Verdi non si può prescindere dall’apporto che egli diede alla causa dell’Unità, impegno che lo pose in posizione privilegiata. Ma, a dispetto del numero enorme di corrispondenza verdiana che ci è pervenuta, ben poco di questo suo impegno è ancora possibile sapere. E nemmeno è possibile riferirsi ad una data precisa, circa la sua reale iniziazione alla massoneria, la quale, pare, sia avvenuta presso quella loggia di Bologna che, in seguito, accoglierà anche Carducci e Pascoli.

Tutto ciò però non significa nulla, poiché è ovvio che, trattandosi, comunque, dell’affiliazione ad una associazione segreta e conoscendo anche l’efficiente censura circolante, non sarebbe stato prudente, per il musicista, dare notizie circa la sua affiliazione. E tantomeno risultava essere in uso alla massoneria, apporre dei manifesti, neppure se l’affiliato rispondeva al nome di Giuseppe Verdi. Anzi, con ogni probabilità, detta iniziazione potrebbe essere avvenuta quando ancora il musicista era tutt’altro che un gran nome.

Pertanto, sull’appartenenza e l’apporto reso da Verdi al processo risorgimentale possiamo procedere soprattutto per induzioni, supportate, però, da prove alquanto chiare e pressoché inoppugnabili.

Nel 1836, il giovane Verdi, contava ventitré anni, e aveva già assommato una serie di deludenti esperienze, sia a Busseto che a Milano. Giunto giovanissimo nella città, aveva inutilmente tentato di divenire allievo di quel conservatorio che, oggi, ironia della sorte, porta il suo nome. Per non tornare da vinto al suo paese, aveva proseguito i suoi studi musicali, privatamente, con il M° Lavigna. Ma, offertasi l’occasione di un concorso nella natia Busseto per il posto di “maestro di musica”, il giovane, mettendo da parte altri sogni, vi aveva partecipato, e, sia pure fra qualche contrasto, lo aveva vinto. A quel punto, ancora amareggiato dall’esperienza milanese, soprattutto di quella del Conservatorio, verso il quale porterà sempre una forma di rancore, il musicista decise di concludere, con quel posto a Busseto, la sua carriera, anche perché gli premeva di mettere su famiglia.

Prima, però, di procedere è bene sgombrare il campo dai poco giustificati risentimenti verdiani avverso il Conservatorio, ristabilendo, ad onore dei musicisti che l’esaminarono, la semplice verità circa detta esclusione. Giuseppe Verdi aveva avanzato domanda al Conservatorio per essere ammesso allo studio del pianoforte, ma, qualità non eccelse a parte (Verdi non sarà mai un grande pianista), il giovanotto, al momento dell’esame, contava circa diciotto anni, età nella quale, in genere, si terminano e non s’iniziano gli studi del pianoforte. L’esame era, poi, per l’accesso ad una classe avanzata di pianoforte e, provenendo il giovane da studi e impostazioni alquanto raffazzonate, soprattutto compiuti all’organo, la commissione giustamente andò a decidere, vista appunto l’età e la mediocre impostazione, di non poterlo ammettere in Conservatorio: diciott’anni erano davvero troppi per divenire un pianista di carriera. Tengasi conto che, allora, le selezioni per essere ammessi non potevano che risultare durissime essendo i Conservatori italiani soltanto due: Napoli e Milano. Sempre la stessa commissione, però, non essendo affatto prevenuta e men che mai incompetente, avendo colto, durante la prova d’improvvisazione resa dall’aspirante pianista, la sua straordinaria capacità compositiva, molto opportunamente, gli consigliò di dedicarsi alla composizione. Cosa che, Verdi, appunto, fece privatamente con il Lavigna, ottimo compositore e collaboratore della Scala.

Comunque, Verdi tornò a Busseto con l’amaro in bocca e, ottenuto il borghesissimo posto di maestro di musica, forse per addolcirsi i giorni, altrettanto borghesemente decise, come detto, di sposarsi, togliendo in moglie la dolce Margherita. La giovane era figlia del ricco mercante Antonio Barezzi, colui che, avendo preso sin da giovanissimo Verdi sotto la sua protezione, era intervenuto, in tutti quegli anni, pagando i suoi studi, prima presso il ginnasio e poi quelli musicali.

Siamo alla metà degli anni trenta e l’Italia, nonostante il fallimento dei moti carbonari del’21, è più che mai percorsa dai fremiti libertari; la gioventù appassionatamente continua a conclamare il suo diritto alla libertà, chiedendo a viva voce: via alle dominazioni straniere dall’Italia; via ai regnanti di qualsivoglia nazione, compresi i Savoia, con quel Carlo Alberto che, dopo tante promesse, nel ’21, aveva fatto arrestare tutti i suoi amici liberali; e, soprattutto, via alle insopportabili differenze sociali. Non a caso, era da più di un secolo che gli illuministi avevano predicato come essere l’intelletto, la conoscenza e la ragione, il più alto grado di nobiltà di un essere umano…Via, insomma tutto!

Migliore credo non ci poteva essere per attrarre, dunque, i giovani, e molti, nella terra del giovane Verdi, già dai tempi della massima espansione della carboneria, s’erano iscritti alla setta segreta, pagando anche, per tale appartenenza, un tributo amaro, chiamato carcere.

Nel 1836, la carboneria, nonostante gli sforzi del Buonarroti (discendente del famoso Michelangelo) era alquanto in disuso, perché soppiantata dalla “Giovine Italia” del Mazzini. Sopravvivevano, però, le varie logge e, Verdi, apparentemente freddo, non poteva, per le passioni brucianti e represse che sapeva tanto bene nascondere e covare in seno, non sentire il fascino di queste organizzazioni segrete. Infine, Verdi era il prototipo di affiliato perfetto; senza contare che in qualche modo doveva pur sfogare la rabbia che teneva in petto contro la società imperante, rea di non averlo compiutamente compreso.

Pertanto, tutto ci indica che furono quelli gli anni nei quali, Giuseppe Verdi, divenne componente di una delle tante logge, figlie, più o meno dirette, dei Fhiladelfhi del Buonarroti.

Da quel momento inizia anche la carriera dell’oscuro e alquanto “sfigato” musicista che, poco dopo, ottiene, inspiegabilmente, un contratto per produrre un’opera nuova, nientemeno che alla Scala.

Verdi, nella sua lunga vita non vorrà mai parlare sul come, pur risiedendo a Busseto, gli sia piovuto quell’incredibile contratto, ma, attraverso delle induzioni e operando delle similitudini, rimane possibile avanzare alcune ipotesi, circa… tanta fortuna.

La similitudine è con Beethoven che, appena diciottenne e sconosciuto, alla morte di Giuseppe II imperatore d’Austria, ottenne una commissione per scrivere una cantata commemorativa; e ciò nonostante la presenza, a Vienna, di altri celebrati maestri.

L’arcano è facilmente scioglibile se si tiene conto che Giuseppe II era protettore della massoneria tedesca e che il giovane Beethoven s’era da poco, tramite il suo protettore Ferdinand von Waldstein, iscritto alla massoneria tedesca dei “Cavalieri Teutonici”; e, come dire, s’era posto sulla piazza. Pertanto, essendo ormai, per scandali vari, in declino la stella di Mozart, aderente alla setta dei “Fratelli illuminati”, alla massoneria non restava che lanciare un altro musicista di sicura fede; qualcuno che fosse, ugualmente, in grado d’inserire, nell’opera musicale, elementi simbolici della massoneria; un qualcosa che, eccellentemente, seppe fare Beethoven, quando usò, per due delle pagine più importanti della cantata per Giuseppe II, le tonalità massoniche (per via delle tre alterazioni che le contraddistinguono) di “do minore e mi bemolle maggiore”.

Ugualmente, lo sconosciuto Verdi, divenuto adepto di una delle tante società segrete riconducibili alla massoneria, potrebbe essere stato prescelto dai “fratelli”, per arricchire il numero di musicisti aderenti all’ordine; e, per questo, presentato, o imposto, all’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, anch’egli di stretta osservanza massonica.

L’opera dell’esordiente musicista “Oberto, conte di San Bonifacio”, viene, dunque, rappresentata nel sommo teatro ottenendo un discreto successo (è in quell’occasione che conosce la stella del momento: il soprano Giuseppina Strepponi). L’esecuzione fu, però, accompagnata dai tanti mugugni di quei musicisti che, pur essendo da tempo sulla piazza, non erano riusciti ancora a mettere piede nel gran teatro. L’anomalia, anni dopo, veniva spesso maliziosamente sottolineata da un altro grande musicista, Amilcare Ponchielli che, appunto, raccontava ai suoi allievi di Conservatorio, tra i quali Puccini e Mascagni, di come, per entrare alla Scala, occorresse salire molti gradini; unica eccezione fatta per Verdi, portatovi, direttamente, “a spalla” dai “fratelli”.

E sempre i “fratelli”, per meglio facilitargli il cammino lo introdussero anche nei salotti che contavano, quale quello della contessa Maffei, anche lei ardentemente votata alla carboneria e consimili; salotto che più snob non poteva essere.

Ora, immaginate, per un attimo la situazione: come avrebbe potuto, un uomo di bassissima estrazione sociale, quale era Verdi, figlio di contadini e non ancora raggiunto dalla gloria, entrare in un salotto tanto esclusivo, se non fosse stato un affiliato?

Tra l’altro, è sufficientemente noto come a presentarlo e aprirgli le porte del celebrato salotto Maffei, fosse un “fratello” di rango che, per la cronaca, si chiamava Carlo Tenca, letterato e giornalista, nonché amante in carica della contessa, ormai separata dal Maffei.

No, Verdi, senza aiuti, sarebbe rimasto come altri “al palo”. Ma, detto questo, occorre aggiungere che per divenire uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, come già per Beethoven e Mozart, non sarebbero bastate affiliazioni e protezioni… in seconda battuta, occorreva possedere la stoffa del genio.

E’ noto che, senza la sostanza, la fortuna non si acquisisce neppure nei salotti, tra l’altro poco congeniali allo scontroso Verdi, e, nei quali, al contrario di quanto si andrà a raccontare dopo, il giovane ebbe poco successo. Infatti, le eleganti signore milanesi non ritennero mai soggetto interessante quel giovane, tutto nero, dall’espressione eternamente “incacchiata”, piuttosto bassino e miserello di corporatura. Per di più, costui, non suonava nemmeno il pianoforte come un Liszt e, in quanto ad oratoria se la cavava peggio, anzi non parlava affatto. Insomma, Peppino, tutto era fuorché un soggetto particolarmente interessante da, magari, concupire. Le conquiste femminili, e neppure eclatanti, verranno dopo.

Ben presto, però, le frequentazioni dei salotti ebbero termine; Verdi, nel giro di pochi mesi sarà sopraffatto dalle disgrazie; tempo due anni e il poveretto si ritrovò a perdere moglie e due figli. In quelle condizioni non poteva che perdere anche il successo! Ancora alla Scala, la sua seconda opera “Un giorno di regno”, composta in quel tristissimo contesto familiare, cadde clamorosamente.

L’uomo è sconfitto, ma, a rimetterlo in piedi ci penserà ancora una volta il “fratello” Merelli, il quale, aduso in genere a non guardare in faccia a nessuno, quella volta volle fare un’eccezione, spingendo lo sfortunato musicista a riprovare con Nabucco. E se ancora non bastasse, gli mise anche a disposizione un’ottima compagnia, nella quale brillava, ma la luce tendeva già ad appannarsi, il soprano Giuseppina Strepponi.

Sarà il primo grande successo di Verdi! Nabucco, conquista il pubblico milanese che, pieno di aspirazioni fortemente liberali (siamo nel 1842), al coro “Va pensiero” e alle parole “O mia patria si bella e perduta” andò letteralmente in delirio. Da quel momento il musicista verrà identificato come colui che può divenire il cantore delle aspirazioni patriottiche di tutti. Identica cosa avviene l’anno seguente con la quanto mai allusiva “I Lombardi alla prima Crociata” e, dopo Milano, nel ’44, tocca a Venezia, dove il coro “Si ridesti il leon di Castiglia” diviene per tutti, e “con sommo gaudio” della polizia austriaca… “Si ridesti il leon di Venezia”; per concludere, nel 1847, con l’esplicito e bellissimo coro “Patria oppressa”, del Macbeth. Più di così!!!

Nel frattempo Verdi ha avviato una “liaison”con la molto navigata Strepponi, sottratta pare allo stesso Merelli, e, alla quale, lo scontroso musicista, impose subito di abbandonare le scene. Su questa storia siamo inclini a pensare che, Verdi, fece tale imposizione, non tanto per gelosia ma perché, da buon musicista, ormai non reggeva più alle frequenti defaillance del soprano. Questa non fu l’unica imposizione che ebbe a subire la donna. Infatti, la poveretta, negli anni a venire, oltre all’umiliante e continua presenza della Stoltz in casa (il soprano con il quale Verdi è ormai certo ebbe una relazione), ebbe a subire anche un’imposizione ancora più grave, quella di dover ritenere come morti i due figli che, lei, aveva precedentemente avuto da una relazione con un altro impresario, il Cirelli. Le due creature, per volontà di Verdi, furono pressoché abbandonate, anzi l’uomo non vorrà mai sentir parlare di loro; e la “Peppina”, succube di colui che chiamava il suo “mago”, colpevolmente lo asseconderà in simile crudele atteggiamento, ancor più grave se proveniente da una madre. I coniugi Verdi, poi, privi di figli propri, adotteranno una nipote del maestro, Maria Filomena.

Tornando a Verdi, era chiaro che non poteva avere solo vantaggi dai “fratelli”; cori operistici a parte, doveva rendere ad essi altre testimonianze concrete. Infatti, il maestro, con il divenire sempre più ricco e celebre, inizierà a destinare alla causa liberale elargizioni cospicue. Nel ‘47, conosciuto a Londra Mazzini, non mancò neppure d’iscriversi alla “Giovine Italia”, collaborando attivamente con lui. Sarà presente e vicino a Mazzini, persino a Roma, durante l’avventura, finita tragicamente, della “Repubblica romana”.

Ancora, negli anni ‘52 ‘53, complice la Peppina, rischierà di brutto per aiutare Mazzini che, in Svizzera, tanto per non perdere l’abitudine, stava preparando ennesimi moti insurrezionali per Milano, tutti puntualmente falliti. Comunque, il maestro, con la scusa di portare, ogni fine settimana, la delicata e sofferente compagna a prendere l’aria buona del lago di Como, attraversava il confine con la Svizzera e portava, nella sua carrozza, appositamente attrezzata, denaro e armi da destinare al Mazzini e ai “fratelli” rivoluzionari.

E qui occorre spezzare una lancia a favore della polizia austriaca, la quale non era composta, come i liberali amavano far credere, da spietati segugi. Infatti, i servizi segreti conoscevano benissimo le idee del musicista, ma non osavano, per ammirazione e rispetto verso la sua musica, della quale erano anch’essi innamorati, fermare, oltre che per un superficiale controllo, la carrozza del maestro. Ovviamente, non soffermandosi troppo, non ebbero mai modo di scrutare, con attenzione, il sottofondo della carrozza, altrimenti…musica o non musica, la galera ci sarebbe stata anche per il famoso operista. In ogni caso, la passione degli austriaci per Verdi, verrà documentata anche da un altro massone, il poeta Giuseppe Giusti, il quale, nella sua poesia – Sant’Ambrogio- ad un certo punto fa cantare in chiesa, a dei commossi soldati austriaci: “O signore dal tetto natio”, dai Lombardi.

Verdi, forte delle simpatie persino austriache che lo sopportavano, diviene, a tutti gli effetti, l’emblema delle aspirazioni liberali… il suo nome, quel “W Verdi”, osannato e invocato, diverrà sinonimo del grido “W Vittorio Emanuele re d’Italia”.

Nel frattempo, lasciata la “Giovine Italia”, per divergenze di opinioni con Mazzini, cosa facilissima ad avvenire, Verdi aveva aderito, come del resto Garibaldi, al movimento filosabaudo e Cavouriano, creato da Daniele Manin.

Gli anni successivi vedranno un Verdi che, pur assorbito da una carriera ormai internazionale, si troverà sempre pronto ad intervenire al bisogno. E non a caso, il primo al quale il conte di Cavour offrirà un seggio nel nuovo Parlamento del regno d’Italia, sarà proprio il Sciur Peppino, come veniva affettuosamente chiamato a Milano. Eletto in una circoscrizione sicura, don Peppino, a ragione, il giorno 18 febbraio sedé in Parlamento; e ciò non perché fosse un celebre musicista, ma perché liberale e patriota di antica data.

Verdi, a seguire, continuò la sua carriera politica, ma iniziò a prendere le distanze dalla politica dei Savoia che, come Garibaldi, dichiarò di non condividere, e non sappiamo se si riferiva al meridione o al problema romano. Comunque, dopo essere stato deputato e senatore, chiuse la sua carriera politica quale consigliere provinciale del suo collegio di Fidenza.

Senza paura di offendere il nume, Verdi, umanamente parlando, non fu un grande uomo bensì un uomo dal forte carattere che voleva imporsi su tutto. Infatti, a parte il poco comprensibile, anzi crudele, comportamento che ebbe verso i figli della Peppina, molte altre furono le ombre che gravarono su di lui, compreso un irrisolto delitto, avvenuto nella sua tenuta e messo a tacere, del quale fu vittima un giovane innamorato segreto della nipote e figlia adottiva, Maria Filomena, giovane per la quale Verdi nutriva una gelosia ossessiva.

Di contro Verdi, sia pure a modo suo, amò molto, almeno la patria. Con tutte queste contraddizioni non sappiamo quale possa essere stato il giudizio del buon Dio quando, nel febbraio del 1901, se lo vide comparire innanzi. A noi piace pensare ch’egli, con quella astuzia tutta contadina che possedeva, si sia presentato porgendo ai piedi del Signore, oltre ai suoi errori, quella grande opera di pietà, chiamata “Casa di riposo per artisti”, con l’aggiunta di sue tre sole note struggenti, quelle che il soprano intona rivolgendosi ad Arrigo, in una delle meno conosciute arie di Verdi, tratta dai “Vespri Siciliani”. Canta il soprano: “Arrigo, io t’amo”, e nella ripresa dell’aria, “Io muoio”.

Ebbene sono tre note, ma nessuno, oltre a Verdi, è riuscito a concepire qualcosa di più straziante e spirituale per descrivere i due grandi momenti che, nel corso della vita, attraversano l’animo dell’uomo: amore e morte.

E se la musica è dono di Dio, per quelle tre note, è facile pensare che, Egli, non abbia potuto rifiutare il perdono a chi, tanto generosamente, nel nascere, aveva voluto invadere della Sua Grazia!

(Dal libro “Quell’amara Unità d’Italia”)

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