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Un caso di presunta corruzione (di un magistrato): una inchiesta indiziaria, una sentenza indiziaria. A me pare un caso di somma ingiustizia. Ma, ovviamente, potrei sbagliarmi. Che ne pensate?

di Salvatore Sfrecola

Buona lettura.

Corte dei conti – N. 119 – 7 aprile 2021: Conferma Corte conti, Sezione Giurisdizionale per il Trentino Aldo Adige-sede di Trento 19.12.2019, n. 68.

FATTO

I

Con la sentenza impugnata, la Sezione territoriale trentina ha condannato il dott. X a pagare, a titolo di danno da disservizio e a favore della Corte dei conti, la somma di euro 450.149,00. L’azione risarcitoria, promossa dalla Procura contabile veneta, prende abbrivio da talune indagini penali avviate a seguito di accertamenti fiscali, promossi nei confronti del Consorzio Venezia Nuova (C.V.N.) – ente consortile affidatario della realizzazione del Modulo Sperimentale Elettromeccanico (MO.S.E.) nella Laguna di Venezia e raggruppante diverse imprese private – che hanno evidenziato la sussistenza di reati tributari commessi mediante fatturazioni per operazioni inesistenti.

In particolare, dal quadro investigativo sarebbe emersa la costituzione di illeciti fondi extra-bilancio, da parte delle imprese consorziate, servite, poi, alla corruzione di esponenti politici e di pubblici funzionari per l’ottenimento di finanziamenti e di altre agevolazioni.

Nell’ambito di tale complessa vicenda corruttiva, il dott. X, magistrato della Corte dei conti in servizio presso la Sezione regionale di controllo per il Veneto, dalla fine del 1997 alla metà del 2005, in qualità di consigliere delegato, è stato imputato del reato di concorso in corruzione propria antecedente (artt. 81, 110, 319 e 321 c.p.), per fatti commessi nell’occasione e nel periodo compreso tra il 2000 e il 2008.

Segnatamente, dalla lettura del capo di imputazione elevato a suo carico, si rileva che l’ing. G. M., presidente del CVN, avrebbe concordato con i responsabili delle principali imprese consorziate, la necessità di corrispondere denaro anche a un magistrato della Corte dei conti, allo scopo di accelerare la registrazione degli atti di approvazione delle convenzioni, dai quali dipendeva l’erogazione dei finanziamenti concessi al MO.S.E. nonchè di ammorbidire i controlli di competenza della Corte medesima sull’impiego delle somme erogate al consorzio.

All’uopo, sarebbe stato costituito un fondo occulto extra bilancio di denaro – denominato “fondo Neri”, dal nome dell’ing. L. N., dirigente- collaboratore del consorzio con cui il X aveva un risalente e intenso rapporto amicale – alimentato dalle imprese consortili e destinato, in parte, a foraggiare il predetto magistrato per il tramite del N. stesso.

Secondo l’accusa penale, mutuata dalla Procura contabile veneta, l’odierno appellante avrebbe percepito tali somme – dell’importo di svariate centinaia di migliaia di euro annui – a prescindere dall’adozione di specifica attività d’ufficio contra legem, dunque quasi a mo’ di stipendio, erogatogli in contanti semestralmente, a partire dall’anno 2000 e sino al 2008, per il solo fatto di essere disponibile ad esercitare la propria influenza all’abbisogna.

Nel corso delle indagini penali, il prevenuto è stato anche attinto, unitamente ad altri, da misura cautelare restrittiva della libertà personale, pronunciata dal g.i.p. presso il Tribunale di Venezia, in data 31.5.2014, nell’ambito del p.p. n. 12236/2013. Tuttavia, successivamente, la medesima autorità giudiziaria ha dichiarato, con sentenza n. 1522/2015, il non luogo a procedere nei suoi confronti per intervenuta prescrizione dei reati ascrittigli, decisione divenuta definitiva all’esito del giudizio di cassazione, per inammissibilità del ricorso proposto dall’imputato, statuita con sentenza n. 2772/2016.

Con apprezzabile scrupolo investigativo, peraltro, la Procura contabile veneta, sulla scorta del suddetto materiale probatorio, ha inteso svolgere ulteriore autonoma istruttoria – procedendo, tra l’altro, all’audizione personale di alcuni imputati o testimoni della citata indagine penale – determinandosi, solo al suo esito, ad esercitare l’azione risarcitoria pubblicistica per cui è causa. Quest’ultima, originariamente incardinata innanzi all’adita Sezione giurisdizionale veneta, è stata, poi, spostata innanzi al “foro magistratuale” individuato, dalle Sezioni Riunite di questa Corte, giusta ordinanza n. 10/2018, nella vicina Sezione trentina.

Come accennato, i giudici di prime cure hanno interamente aderito alla domanda risarcitoria avanzata dal p.m., ritenendo pienamente comprovati i fatti di causa e condividendo il criterio quantificatorio del danno erariale (da disservizio) dallo stesso propugnato, parametrato alla metà della retribuzione netta percepita negli anni 2000-2008.

II

Avverso la sentenza n 68/2019 ha interposto un articolato appello il dr. X, denunziando, essenzialmente, i plurimi errores in iudicando asseritamente commessi dalla Sezione territoriale nell’aver:

Ha concluso, pertanto, l’appellante per la riforma integrale della sentenza e il rigetto della domanda risarcitoria, ovvero, in subordine, per l’esercizio del potere riduttivo dell’addebito.

La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo che la causa venga decisa, impregiudicata ogni diversa quantificazione del danno erariale. Ha, in particolare, evidenziato come, nel caso di caso di specie, il giudice penale abbia ritenuto non sussistenti le condizioni per pronunciare sentenza nel merito favorevole all’imputato ai sensi dell’art. 129, comma 2, c.p.p., non risultando dagli atti “evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso”, ciò che onererebbe il Collegio a valutare con particolare rigore gli elementi emersi nel procedimento penale ai fini della decisione sulla responsabilità amministrativa dello stesso per danno da disservizio, anche con riferimento ai criteri di quantificazione.

All’udienza di discussione del giudizio, le parti hanno ampiamente illustrato le contrapposte tesi, insistendo nelle rispettive conclusioni. Al termine, la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

I

Non venendo in rilievo questioni pregiudiziali di rito, può scrutinarsi direttamente il merito del gravame. Al riguardo, il Collegio ritiene l’appello meritevole di solo parziale accoglimento, sotto il profilo della quantificazione del danno erariale, per le ragioni che seguono.

Al fine di escludere, sin d’ora, pur possibili strumentali impugnazioni – in particolare, per revocazione, ex art. 202, comma 1, lett. f) c.g.c. – della presente decisione, finalizzata surrettiziamente ad una non consentita rinnovazione dell’attuale grado di giudizio, la Sezione ritiene opportuno, preliminarmente, rammentare che:

Alla luce di ciò, nonché del principio di sinteticità degli atti processuali di cui all’art. 5 c.g.c., siccome declinato, con riguardo alle sentenze, agli artt. 39 c.g.c. e 17, disp. att., c.g.c., ritiene il Collegio che possa farsi riferimento, per ragioni di economicità e di sintesi, alle oltre cinquanta pagine di articolata motivazione della gravata sentenza (cfr., in particolare, pagg. 26-82), di cui questa Sezione massimamente condivide, con i distinguo di cui si dirà, l’iter logico-giuridico, in quanto convincentemente esposto e non idoneamente censurato dall’appellante, limitandosi a scrutinare gli aspetti essenziali dell’impugnazione, per i soli profili difensivi, cioè, che trascendano la loro già avvenuta compiuta disamina in tale sede.

Esaurite le premesse metodologiche espositive e venendo alla trattazione dell’impugnazione, va, innanzitutto, confermata la comprovata -quantomeno in via indiziaria, ex art. 2729 c.c. – verificazione delle condotte ascritte al prevenuto, alla luce del quadro documentale versato in atti.

Invero, la lettura del compendio probatorio, di matrice penale, acquisito dal p.m. contabile – peraltro, ulteriormente confortato dalle audizioni direttamente svolte da quest’ultimo e dagli accertamenti esperiti in situ presso la sede regionale veneta della Corte – non lascia adito a dubbi, in primo luogo, circa l’avvenuta dazione tangentizia in favore del X, nei termini innanzi illustrati.

Le plurime chiamate in correità da parte, innanzitutto del principale protagonista, in quanto promotore, del sistema di corruttela che ne occupa (G. M., in qualità di presidente del C.V.N.), siccome sostanzialmente avallate dalle dichiarazioni indizianti rese da altri soggetti comprimari della vicenda – tra cui, in particolare, R. P., P. S. e P. B., rispettivamente, dirigente-collaboratore del consorzio e componenti del consiglio direttivo dell’ente (in qualità di rappresentanti di talune imprese appartenenti a quest’ultimo), in veste di corruttori “mediati” – depone inequivocabilmente in tale senso.

In via di estrema sintesi, rimandandosi amplius et breviter, ex art. 17, comma 1, disp att. c.g.c., al contenuto delle suddette dichiarazioni riportate sia nell’atto di citazione in giudizio (pagg. 17-28 e 37-62) che nei provvedimenti assunti dall’autorità giudiziaria penale (cfr., ord. g.i.p. Trib. Venezia del 31.5.2014, pagg. 482-485 e 499-504; sentenza g.u.p. Trib. Venezia di n.l.p. n. 1522/2015, par. nn. 2-4), può dirsi raggiunta pacificamente la prova sulla circostanza che:

Orbene, è indubbio che solo il P., tra gli altri dichiaranti, indichi nominativamente l’odierno appellante – unitamente al collega Z., che però risulta non aver mai rivestito funzioni di controllo, essendo egli sempre stato Presidente della Sezione giurisdizionale veneta della Corte dei conti – quale soggetto destinatario della corruttela. Dalle altre dichiarazioni, in effetti, emerge unicamente che ingenti somme di denaro furono date dagli imprenditori consorziati al N., su indicazione del M., per “comprare”, oltre ad una serie di politici e funzionari pubblici – molti dei quali, peraltro, parimenti condannati in sede penale e contabile per la medesima vicenda (v. infra) – i favori di un magistrato della Corte dei conti, non meglio individuato.

Ciò detto, tuttavia, di contro, è da evidenziarsi come, al di fuori del X, non sia stato adombrato da chicchessia, in maniera credibile (in ragione delle funzioni svolte), nessun altro magistrato contabile.

Il suddetto Presidente del C.V.N., infatti, ha dichiarato più volte di aver foraggiato il X per circa un decennio per il tramite dell’ing. L. N. – che, ricordiamo, ha una amicizia di lunga data col prevenuto, mai negata da entrambi, di guisa da rendere verosimile che costui fosse l’autore mediato della dazione tangentizia – e lo riconosce anche in fotografia, tra le diverse che gli vengono sottoposte, dimostrando, anche per tale via, la conoscenza diretta del corrotto, affermata come avvenuta per il tramite del N., seppur negata dall’appellante.

Quest’ultimo dubita della validità del suddetto riconoscimento fotografico, in quanto non effettuato in contraddittorio con il difensore (del X ?) e, tuttavia, ciò non è da ritenersi necessario nel giudizio contabile.

Come già chiarito in numerose pronunce, invero, anche riguardanti la medesima vicenda corruttiva, tale processo non è assistito da quelle garanzie procedimentali note al rito penale, tra cui la divisione tra il fascicolo del p.m. (contenente tutti gli atti delle indagini preliminari) e quello del giudice del dibattimento in cui la prova si forma, risultando sufficiente il deposito, nel giudizio di responsabilità, degli elementi di prova, affinchè il convenuto possa prendervi posizione (ex plurimis, C. conti, Sez. I App., n. 96/2018).

Per inciso, non appare al Collegio neanche verosimile che il Mazzacurati potesse aver riconosciuto il X per averne intravisto la foto su precedenti articoli di stampa, trattandosi di circostanza di assai difficile verificazione (essendo di certo inconsueto, per dato di comune esperienza, che vi siano servizi fotografici riguardanti magistrati contabili), né, in ogni caso, la difesa dell’appellante ha prodotto una qualche notizia mediatica tale da indurre a ritener credibile la prospettazione.

Aggiungasi che non sono emersi – né vengono dall’appellante neanche lontanamente ventilati – possibili intenti ritorsivi del M. (o dello stesso P. o B.) nei suoi riguardi, sicchè davvero non si comprende la ragione per la quale costoro – ma soprattutto il primo, la cui testimonianza è di fondamentale importanza, dato il ruolo rivestito – avrebbero dovuto fornire una versione dei fatti gravida di conseguenze, peraltro, non solo etero, ma anche autoaccusatorie.

Il N., poi, pur contestando i fatti corruttivi addebitatigli in sede penale riguardanti l’appellante, non nega di aver interloquito spesso, in via amicale, col X presso il circolo romano della Corte per avere suggerimenti circa la risoluzione di problematiche eventualmente insorte in ordine alla realizzazione del MO.S.E., con ciò implicitamente (e involontariamente) dimostrando come il suddetto ex magistrato fosse il candidato più idoneo ad essere astrattamente prescelto quale soggetto da corrompere.

D’altronde, sebbene il predetto collaboratore del consorzio abbia sempre recisamente negato il pagamento di tangenti all’appellante, tuttavia, del tutto incomprensibilmente, risulta aver patteggiato anche la condanna per il capo di imputazione riguardante siffatta vicenda (cfr. sentenza g.u.p. Trib. Venezia n. 2102/2014), così ammettendo implicitamente la sua colpevolezza anche per tale fatto corruttivo. Non viene, del resto, neanche fornita una qualche spiegazione circa tale scelta, a tal punto improvvida da rischiare di aggravare la posizione del professionista, in ordine alla misura della pena concordata, a tacer dell’obbligo di rifondere integralmente il prezzo anche di questo reato (cfr. art. 444, comma 1 ter, c.p.p.).

Sicché, pur essendo tale sentenza priva di quell’efficacia probatoria diretta, quale ammissione implicita di colpevolezza, generalmente riconosciuta dalla giurisprudenza contabile, in assenza di alternativa spiegazione – non avendo il X patteggiato, bensì un terzo – tuttavia, essa di certo rappresenta un ulteriore tassello, unitamente agli altri indizi finora indicati, atto a fornire prova, sebbene indiretta, della responsabilità del suddetto ex magistrato, ai sensi del già invocato art. 2729 c.c.

Non può, d’altronde, sottacersi come il X, sebbene non abbia ritenuto di addivenire ad una definizione concordata della pena, ex art. 444 c.p.p. – non già perché ciò comportasse una qualche accettazione delle gravi accuse rivoltigli, quanto, probabilmente, per strategia difensiva dettata dalla imminente prescrizione, stante la vetustà dei reati ascrittigli (poi, infatti, dichiarata dal g.u.p. veneto giusta sentenza di n.l.p. n. 1522/2015, cit.) – non si è neanche arrischiato di affrontare un giudizio sulla sua penale responsabilità, rinunciando alla prescrizione, come era in sua facoltà, avendo cosi possibilità di dimostrare la sua innocenza.

Più a monte, non va sottovalutato come l’intero impianto accusatorio penale concernente la c.d. “vicenda MO.S.E.”, coinvolgente, come accennato, noti politici – tra cui, ricordiamo, l’ex Presidente della Regione Veneto (G. G.), l’allora assessore regionale alle infrastrutture (R. C.), l’ex Ministro dell’Ambiente (A. M.) e l’ex consigliere giuridico dell’allora Ministro dell’economia Tremonti (M. M.) – lo stesso Presidente dell’autorità denominata Magistrato alle Acque di Venezia (P. C.), l’ex generale della Guardia di finanza (E. S.) e il già detto collaboratore del C.V.N. L. N., fondato prevalentemente sulle suddette dichiarazioni auto ed etero accusatorie (tra cui, invariabilmente, quelle del M. e del B.), abbia trovato puntuale conferma nelle varie fasi del giudizio penale, sia in sede cautelare (cfr. ord. g.i.p. Trib. Venezia del 31.5.2014, cit.) che di merito (cfr. sentenza Trib. Venezia n. 1468/2017, imp. M. e altri; Trib. Milano sent. n. 4764/2016, imp. Milanese; sent. g.u.p. Trib. Milano, imp. S.).

Molti degli imputati hanno, peraltro, patteggiato la pena (oltre al N., anche G., C. e C.), come si desume dalla sentenza di condanna in sede contabile (C. conti, Sez. I App. n. 96/2018, cit., convenuto G.; Sez. I App. n. 35/2018, convenuto C.; Sez. III App., n. 241/2019, convenuto C.).

Se le suddette dichiarazioni indizianti, riguardanti altri soggetti coinvolti nel sistema corruttivo, ma rese dai medesimi soggetti che hanno chiamato in correità il X, avessero presentato profili di scarsa credibilità, certamente l’indagine, nel suo complesso, non avrebbe resistito ad un plurimo vaglio critico giudiziale reso nelle riferite sedi, con ciò vieppiù indirettamente confermandosi, la sostanziale affidabilità delle vedute affermazioni etero accusatorie rese, in particolare, dal M..

Per altro verso, il richiamato imponente quadro probatorio, rappresentato dai riferiti provvedimenti giudiziari – a loro volta basati, oltre che sulle suddette dichiarazioni, altresì, sulle ulteriori indagini svolte dalla p.g. in proposito e compendiate nelle informative in atti – cui si rimanda breviter ex art. 17, comma 1, disp att. c.g.c. (a cui va aggiunta anche la condanna in prime cure dello stesso M., giusta sentenza della Sez. Giurisd. Veneto n. 239/2019), esime il Collegio dal dover ulteriormente soffermarsi sulla sussistenza e sui meccanismi di funzionamento del sistema criminale che ha visto protagonista, perlomeno in via induttiva, anche l’odierno appellante, per le ragioni già esposte.

Non è, poi, da trascurare che lo stesso g.u.p., nel dichiarare la prescrizione del reato ascritto al X, abbia motivato la decisione in maniera davvero inusuale per la formula di proscioglimento adottata, manifestando, nei fatti, il suo convincimento circa la colpevolezza dell’imputato (cfr. sent. 1552/2015, cit., sub par. nn. 3-4), con un ragionamento, fondato sulla lucida analisi delle dichiarazioni indizianti che ne occupa, in uno con le difese svolte dall’imputato che – al netto di talune imprecisioni, denotanti una (comprensibile) imperfetta conoscenza delle procedure di controllo preventivo di legittimità innanzi alla Corte dei conti (es. laddove si presuppone la indefettibile trattazione collegiale, in realtà meramente eventuale, delle questioni sottese allo scrutinio di legittimità dell’atto controllato: cfr. art. 2, comma 6, deliberazione SS.RR. n. 14/2000) – risulta convincente e da cui, dunque, il Collegio non ha motivo di discostarsi.

Va, invero, rammentato che al riconoscimento della responsabilità amministrativa in questa sede, può senz’altro pervenirsi anche attraverso i provvedimenti assunti presso altro plesso giurisdizionale, i quali assurgono a valore documentale da cui il giudice contabile può desumere argomenti di prova, in virtù di un preciso principio di circolarità probatoria desumibile dal sistema processuale (ex plurimis, Sez. I App. n. 96/2018, cit.).

A tal riguardo, deve, peraltro, dissentirsi con l’appellante sul preteso errore della sentenza impugnata nella parte in cui avvalora il proprio convincimento, richiamando accertamenti tributari emessi nei riguardi del prevenuto, per il recupero a tassazione di redditi illeciti occulti relativi al prezzo dell’accordo corruttivo, in quanto poi annullati dalla c.t.r. Lazio.

La doglianza non è rilevante, perchè le valutazioni effettuate dall’Agenzia delle entrate – e inizialmente avallate dalla c.t.p. – non sono determinanti ai fini dell’accertamento della colpevolezza del X. La Procura, invero, ha addotto tali valutazioni ad ulteriore comprova delle condotte illecite realizzate, che però sono già state sufficientemente dimostrate in altro modo.

Nè la decisione della c.t.r., peraltro di segno opposto alla c.t.p. (e di cui non è nota l’eventuale impugnazione in Cassazione), può minare il quadro accusatorio, ove si consideri che il ragionamento ivi seguito ha rilevanza esclusivamente per le particolari finalità dell’accertamento dei proventi illeciti e con argomentazioni frutto di un giudizio che, come tutti, ha margini di opinabilità, ed è in contrasto con le contrarie e più convincenti valutazioni giudiziarie operate dall’autorità giudiziaria ordinaria.

La G.d.F., peraltro, ha rinvenuto ben 500 mila euro sul c/c bancario dell’appellante, nell’anno 2014, durante l’esecuzione del sequestro cautelare penale, con ciò anche superandosi, almeno nei fatti, una delle principali obiezioni mosse dal giudice tributario d’appello in proposito, ossia che non fossero stati effettuati accertamenti patrimoniali da parte dell’Agenzia delle entrate circa la provenienza illecita delle somme, il cui possesso, d’altronde, non risulta in alcun modo giustificato in questa sede dal prevenuto.

E ciò pur dovendosi convenire con la difesa dell’appellante circa l’irrilevanza probatoria che la p.g. ha inteso far discendere dalle circostanze concernenti: a) l’accollo, da parte del N. del costo dell’albergo dei coniugi X, in occasione del matrimonio del di lui figlio; b) il reperimento dell’utenza telefonica del N. nella rubrica del prevenuto; c) l’intercettazione di sms intercorsi tra i due, avente ad oggetto la comunicazione dell’esito favorevole del controllo su atti riguardanti il MO.S.E. Difettano, invero, nei suddetti indizi, i requisiti di gravità, precisione e concordanza, ex art. 2729 c.c., trovando essi senz’altro alternativa spiegazione logica nella risalente e stretta amicizia tra i due e nelle cortesie d’uso. In particolare, l’anticipata comunicazione dell’esito favorevole di un controllo di legittimità, può, al più, integrare gli estremi del reato di rivelazione di segreto d’ufficio (e/o assumere rilievo disciplinare), ma non arrivare fino al punto di testimoniare gli effetti di un pactum sceleris, in ragione della innocuità della rivelazione, trattandosi degli esiti di un controllo positivo già intervenuto in un periodo in cui il X , peraltro, non risultava più in servizio in Veneto né a Roma, bensì in Toscana, quale neo nominato Presidente della locale Sezione regionale di controllo.

II

Dimostrata, in via presuntiva, la percezione, da parte del prevenuto, della cospicua e pluriennale tangente, non è revocabile in dubbio che la stessa sia stata necessariamente finalizzata al mercimonio del delicato ruolo svolto dal X, in qualità di consigliere delegato della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti per il Veneto, essendo contraria ad ogni logica che somme – soprattutto se di tale entità – vengano dal corruttore elargite senza una corrispondente contropartita quale sinallagma del pactum sceleris. Trattandosi di ipotesi corruttiva, ne risulta in re ipsa l’imputazione soggettiva a carattere doloso, che esclude in nuce l’applicazione del pur richiesto potere riduttivo dell’addebito.

II.I

A tal riguardo, in realtà, appare necessario effettuare alcune considerazioni.

E’ indiscutibile che la Procura regionale si sia trovata nella presente vicenda assai meno agevolata, rispetto alle consimili per le quali pure ha proceduto (con gli esiti favorevoli più sopra richiamati), nel raggiungere la prova della colpevolezza del prevenuto, sia con riguardo alla percezione della tangente che, soprattutto, alla individuazione del danno erariale atto a integrare l’illecito de quo agitur.

A differenza che nelle altre ipotesi corruttive venute in rilievo, invero, qui è mancata un’ammissione implicita di responsabilità derivante da una sentenza penale di patteggiamento, la cui esistenza, com’è noto, avrebbe alleggerito di non poco l’onere probatorio del p.m. Né quest’ultimo ha potuto contestare, per i medesimi motivi, come negli altri casi, il danno all’immagine subito dall’istituzione di appartenenza del reo, mancando la condizione di procedibilità richiesta dall’art. 17, comma 30 ter, l. n. 102/2009 (e dall’art. 51, comma 7, c.g.c.).

Proprio nel presente caso, certamente un danno erariale da lesione dell’immagine (di questa Corte) sarebbe stato facilmente accertabile per il solo fatto dell’aver il X percepito la tangente, a prescindere dalla prova – si badi – dello specifico compimento di atti contrari ai propri doveri d’ufficio, in quanto circostanza già ex se in grado, con tutta evidenza, unitamente all’indubbio strepitus fori ingenerato dalla amplissima propalazione mediatica dello scandalo, quand’anche si fosse concretizzata in un mera remunerazione per la generica disponibilità di costui, di arrecare un rilevante disdoro alla magistratura alla quale apparteneva.

Non a caso, in tutte le precedenti contestazioni operate dalla Procura veneta, si è invariabilmente giunti alla condanna definitiva per tale tipologia di danno (cfr. sentenze più sopra citate), mentre non altrettanto scontata è stata, per la verità, quella relativa al pur prospettato danno da disservizio (contraria, ad esempio, questa stessa Sezione, nei procedimenti contro C. e G.: cfr. sent. nn. 35 e 96 del 2018, cit.; in termini favorevoli vedasi, invece, C. conti, Sez. III App., n. 241/2019, nel procedimento contro C.).

Ad ogni buon conto, la Procura ha prudentemente agito unicamente per il risarcimento del danno da disservizio e non anche per quello c.d. “ da tangente” (pur indubbiamente percepita, come chiarito, dal X), tenendo probabilmente conto dell’indirizzo secondo cui, laddove non riguardi appalti (dove si presume che la tangente si “ribalti” sul prezzo finale della pubblica commessa), lo stesso non assume rilievo ex se (tra le tante, C. conti, Sez. I App., n. 420/2018; Sez. Giurisd. Campania, n. 317/2019).

Il p.m., comunque, con non comune scrupolo investigativo, è giunto al punto non solo di far ripetere innanzi a sé le dichiarazioni rese dai protagonisti del sistema MO.S.E., in sede penale, ma addirittura di vagliare criticamente i pur favorevoli esiti della verifica compiuta dalla speciale commissione magistratuale d’inchiesta – nominata nel 2014 dall’allora Presidente della Corte, per saggiare la fondatezza delle gravissime imputazioni mosse al suddetto magistrato (cfr. relazione finale agli atti) – attraverso l’ispezione presso gli uffici veneti della Corte e l’acquisizione e l’analisi degli atti del M.A.V. sottoposti a controllo preventivo di legittimità e alla stessa commissione d’indagine.

La sentenza appellata, in proposito, seguendo la prospettazione accusatoria, sostiene, condivisibilmente, che l’esito positivo del controllo svolto dalla precitata commissione inquirente – così come la mancata individuazione, da parte del p.m., di quella che potremmo definire, con gergo giornalistico, “la pistola fumante” – sono stati influenzati dall’impossibilità per entrambi di prendere visione della documentazione completa afferente agli atti del M.A.V. sottoposti al controllo preventivo di legittimità, essendo prassi restituirla, una volta completata la procedura del visto.

E’ indubbio, peraltro, che la domanda risarcitoria avrebbe senz’altro avuto ancor maggior supporto probatorio, laddove, il suesposto sillogismo fosse stato confortato dall’acquisizione di tale documentazione, ai sensi dell’art. 61 c.g.c.

D’altro canto, non va sottaciuto come la procedura concernente il visto di legittimità presso la Sezione regionale di controllo non poteva prescindere dall’indefettibile input proveniente dal magistrato istruttore (nel periodo in contestazione rivestito, successivamente, dai dott. M., G. e B. e mai dal X che aveva il ruolo di consigliere delegato), ai sensi dell’art. 2 comma 6, del. SS.RR. n. 14/2000 (rappresentante il fondamentale atto di auto organizzazione delle funzioni di controllo presso la Corte dei conti).

Il sistema ivi delineato, com’è noto, invero, presuppone, necessariamente che sia il magistrato istruttore a sollevare, in prima battuta, eventuali criticità sugli atti sottoposti a controllo, mentre dalla disamina degli atti acquisiti dalla Procura in sede di accesso agli uffici veneti della Corte, si evincono sia alcuni rilievi (poi risolti in sede di chiarimenti con l’amministrazione), testimonianti l’avvenuto esercizio, secundum legem, della funzione, sia l’avvenuta condivisione, tra magistrato istruttore e consigliere delegato, del ritenuto superamento di problematiche inizialmente rilevate dal magistrato istruttore medesimo.

Ad esempio, analizzando l’episodio richiamato dal p.m. per sostenere il sospetto interessamento del X , è a dirsi come il rilievo formale n. 6 del 2004 viene redatto in parte da costui e in parte dalla referendaria B. (poi sottoscritto unicamente dal solo magistrato istruttore), mentre anche la dott.ssa D. D., funzionaria della Corte veneta, usava fare istruttoria preliminare, indirizzandone gli esiti a entrambi i magistrati.

Nella specie, al rilievo fece, peraltro, seguito un’articolata risposta del M.A.V., in data 17.3.2004, cui seguì una ulteriore relazione parzialmente perplessa del funzionario addetto che, però, non trovò concorde innanzitutto il magistrato istruttore, opinione cui aderì, poi, il consigliere delegato.

Ancora, nel 2003 si riscontra la restituzione di un atto al M.A.V. – peraltro giustificata, perché non sottoponibile a controllo preventivo ex art. 3 l. n. 20/94 – concordata dalla dott.ssa B. col X: ciò, si badi, lungi dal dimostrare un interessamento del secondo, va fatto rientrare nei normali rapporti di colleganza, anche al fine di evitare sul nascere, in un’ottica di snellimento dell’attività di controllo, formali dissensi forieri di rimessione all’adunanza della Sezione.

Infine, è da segnalarsi come, nel 2002, risultino anche tre rilievi (nn. 12-15) e un atto di annullamento e rettifica, a seguito di rilievi, da parte del M.A.V. Più in generale, dagli atti estrapolati a campione, tra quelli verificati dalla commissione negli anni interessati (2000-2005), su 36 atti controllati risultano n. 4 rilievi.

Alla luce di quanto evidenziato, i suindicati documenti, non fanno, dunque, direttamente prova di un possibile mercimonio della funzione dal parte del X che, d’altro canto, è stato anche prosciolto nell’inchiesta amministrativa, sebbene quest’ultima, come chiarito, è risultata probabilmente inficiata dai riscontri solo formali effettuati.

La stessa Procura si mostra ben consapevole, del resto (v. atto di citazione, pag. 112), che per esserci ammissione al visto è necessario che ci sia concorde parere del consigliere delegato e del magistrato istruttore, posto che in caso di dissenso la questione è sempre rimessa al Collegio che deve pronunciarsi con una apposita delibera (cfr. art 2, comma 6, delibera n. 14/2000 cit.), ma, come accennato, non viene dedotto alcun episodio di dissenso in proposito (ossia che il consigliere delegato avesse artatamente mostrato di non condividere eventuali profili di illegittimità avanzati dal magistrato istruttore), mentre risulta la sostanziale concordanza delle opinioni espresse dai colleghi della Sezione nell’intero periodo contestato.

II.II

E’ da chiarirsi, inoltre, in ragione della natura del danno contestato in questa sede, che al X, che pure è un magistrato romano, può ascriversi unicamente il disservizio derivante dallo svolgimento delle sue funzioni presso la sede veneta della Corte.

La Sezione di controllo locale, invero, era l’ufficio della Corte competente a registrare il visto, ex art. 3, comma 1, lett. g), l. n. 20/1994, sugli   atti aggiuntivi d’appalto, determinanti per l’approvazione e la liquidazione degli ulteriori importi relativi alla realizzazione del MO.S.E., emessi dal M.A.V. nel quadro della convezione generale n. 7191/1991, prevista dalla l. n. 798/1984 (c.d. seconda legge speciale per Venezia), intercorsa col C.V.N. Di tale Sezione, rivestiva, infatti, il X, il ruolo centrale di consigliere delegato (nel periodo 1.1.2000-30.4.2004, in assegnazione principale e fino al 15.7.2005 in assegnazione aggiuntiva: cfr. stato di servizio in atti). Costui, sempre nel periodo in contestazione, ha svolto, a Roma, le funzioni di componente della Sezione di controllo Enti (dal 1.5.2004 al 21.5.2006) e, successivamente, di Consigliere delegato dell’ufficio di controllo di legittimità atti di alcuni Ministeri, tutti uffici della Corte che, però, non avevano competenza sulla vicenda per cui è causa (o, comunque, per quanto attiene alla Sezione enti, non viene delineata alcuna concreta attività correlata alle funzioni da questa svolte, ex lege n. 259/1958, che riguardasse il MO.S.E.). Sicchè appare arduo dimostrare l’efficienza causale della tangente percepita sull’ammorbidimento dei controlli da parte degli uffici romani della Corte più direttamente collegati alla realizzazione del MO.S.E., potendosi al più ipotizzare, in via puramente accademica, un interessamento del prevenuto presso colleghi, facilitata dall’abitudinarietà della frequentazione romana e stante le risultanze delle dichiarazioni indizianti innanzi vedute, circa l’esistenza di un magistrato della Corte, non meglio indicato, capace di fare gli interessi del C.V.N.

A tal proposito, e per inciso, è netta la sensazione, leggendo gli incartamenti processuali e tenuto conto della rilevanza economica e strategica dell’affare, del fiume di denaro riversato con facilità dagli imprenditori consorziati per “oliare” la macchina burocratica e delle precipue competenze delle sedi centrali di controllo della Corte, che non sia stato il X l’unico magistrato contabile destinatario di tangenti per la vicenda MO.S.E. in tutti quegli anni, sebbene l’inquirente penale – e men che meno quello contabile, non dotato dei medesimi poteri d’indagine – non sia riuscito ad individuare alcun altro correo.

Ciò detto, il famoso episodio riguardante la c.d. “delibera M.” del 2009 (dal nome del relatore dell’indagine esitata nella deliberazione n. 2/2009, pronunciata dalla Sezione di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato), relativa allo stato di attuazione del MO.S.E. – dove si paventano compiacenti modifiche postume alla stessa, dimostrata dall’inusuale ritrovamento del relativo file word in uno dei computer del C.V.N., in uno con la inconsueta tardività della pubblicazione della delibera dopo l’adunanza – a dispetto della centralità assunta nelle indagini penali (ma anche del p.m. contabile), per corroborare l’impianto accusatorio, non sembra al Collegio particolarmente indiziante in ordine alla responsabilità amministrativa ascritta al prevenuto.

Innanzitutto, il X non ha mai fatto parte della suddetta Sezione di controllo; inoltre, la commissione interna ha appurato, acquisendo la dichiarazione del dott. M. sul punto, che la relazione finale da lui redatta e quella pubblicata erano identiche (v. relazione finale Commissione, cit., pag. 8).

D’altro canto, laddove ci fosse stato un qualche intervento a favore del C.V.N., il dott. M. avrebbe dovuto essere coinvolto sia nelle indagini penali, sia in quelle contabili, cosi come l’allora Presidente della Corte (T. L.) che presiedette eccezionalmente la Sezione, in quanto entrambi firmatari della delibera poi pubblicata dopo le normali ed usuali “limature”, concordate tra relatore e Presidente, successive all’audizione in udienza dei rappresentanti delle amministrazioni coinvolte.

Inoltre, sebbene la tesi accusatoria si dilunghi sul veduto episodio asseritamente corruttivo, quest’ultimo non è neanche da considerarsi ai fini che ne occupa, posto che lo stesso p.m. ha ritenuto, poi, di non contemplarlo nella complessiva causa petendi, precisando che le condotte contestate si riferiscono al periodo 2000-2008 (v. pag.110 citazione). Di guisa che, in disparte quanto già sopra evidenziato, le censure gravatorie formulate dall’appellante sul punto, possono ritenersi assorbite.

A conclusione della riferita disamina degli incartamenti processuali, è bene precisare che la particolare attenzione che si è voluto dedicare, nella presente decisione, al vaglio delle (pur esistenti) argomentazioni favorevoli all’appellante, non deve essere intesa come indice di una qualche incertezza del Collegio circa la responsabilità del prevenuto.

Sebbene, il presente processo abbia natura anche indiziaria, essa vuole testimoniare unicamente l’assenza di un acritico recepimento della tesi accusatoria già avallata nel precedente grado di giudizio e l’assicurata analisi assolutamente imparziale, quale fondamentale obbligo del giudice, del materiale documentale versato in giudizio, soppesando elementi favorevoli e contrari alla colpevolezza del presunto responsabile.

III

Fermo quanto sopra, è, peraltro, indubbio come, oltre all’avvenuta percezione della tangente che ne occupa, il X abbia certamente recato un danno da disservizio in disfavore della Corte dei conti.

Secondo la Procura, con una tesi cui poi ha aderito la sentenza appellata, si tratterebbe di un danno da servizio c.d. “in senso ampio”, (v. atto di citazione, pagg. 93-100 e 104-127), all’uopo riferendosi al consimile danno erariale accertato in prime cure, dalla Sezione giurisdizionale veneta, in capo al G. e al C., che, peraltro, sono risultati poi assolti, in via definitiva, per tale posta di danno, da questa Sezione, con le più volte citate sentenze nn. 35 e 96 del 2018, per genericità di prospettazione nell’an e nel quantum.

A tal proposito, la Sezione, melius re perpensa, ritiene che la messa a disposizione delle proprie energie lavorative, non già al miglior espletamento delle proprie delicate funzioni di controllo, bensì a favorire – eventualmente anche evitando rilievi in dissonanza con l’opinione del magistrato istruttore (tenendo conto della maggiore esperienza sul campo, rispetto a colleghi di prima nomina, esercitanti le funzioni di magistrato istruttore: cfr. le condivisibili considerazioni rese dal p.m. nell’atto di citazione, pagg. 112 e 125) – oppure sostenendo solo rilievi non essenziali che si sarebbero potuti risolvere (come poi è successo), è idoneo a spezzare il nesso di sinallagmaticità tra la retribuzione ricevuta e la prestazione lavorativa resa, che concreta, per pacifica giurisprudenza, il danno da disservizio c.d. “in senso ampio” (ex plurimis, C. conti, Sez. I App. n. 182/2019 e Sez. III, n. 241/2019, relativa al procedimento C.).

Ad ulteriore indiretta conferma dell’intenzionale mancato pieno esercizio della funzione, si evidenzia come il X, non risulti aver mai avviato alcuna indagine sulla gestione del MO.S.E., nonostante il Presidente della Sezione presso cui era in servizio, gli avesse, con ordinanza n. 1/2001, assegnato tale incarico, nell’ambito del controllo sull’amministrazione regionale ai fini di referto (cfr. relazione finale della commissione d’inchiesta, pag. 5).

Acclarato l’an del nocumento patrimoniale de quo agitur, va, però ridimensionata la misura dello stesso, in parziale accoglimento della specifica censura avanzata in proposito dall’appellante.

Va rammentato che la quantificazione del danno, condivisa dai primi giudici, è stata individuata dal requirente, in una somma pari al 50% dello stipendio di magistrato (al netto delle ritenute fiscali, seguendo l’orientamento espresso sul punto in taluni precedenti della locale Sezione giurisdizionale), ragguagliato al periodo temporale (2000-2008) in cui il X avrebbe ricevuto le mazzette, secondo le vedute dichiarazioni etero accusatorie del M..

Diversamente, ritiene il Collegio che il danno andasse quantificato al lordo delle ritenute fiscali in acconto irpef operate dal datore di lavoro (la Corte dei conti), in qualità di sostituto d’imposta, trattandosi di misura della prestazione lavorativa sinallagmaticamente deviata e non di quanto indebitamente corrisposto al prevenuto a titolo stipendiale (e a tacer del fatto che, recentemente, le Sezioni Riunite hanno definitivamente stabilito che la determinazione debba indefettibilmente avvenire in tal modo anche in quest’ultimo caso: amplius, C. conti, SS.RR. n. 24/2020).

Chiarito ciò – e in coerenza con i rilievi più innanzi esposti circa l’ambito di influenza strettamente locale esercitato dal prevenuto e che l’attore pubblico è riuscito a comprovare documentalmente – a parere del Collegio ha errato il giudice territoriale nel rapportare la quantificazione del danno alle annualità 2000-2008, anziché per il solo periodo in cui il X è stato in servizio presso la sede veneta della Corte (dal 2000 al 1.5.2004 in assegnazione piena, per poi trasferirsi alla Sezione Controllo Enti, in Roma, e fino al 15.7.2005, in assegnazione aggiuntiva).

Invero, le dazioni tangentizie protrattesi per il periodo successivo non possono aver avuto alcuna efficienza causale nella verificazione del disservizio (o quantomeno non è stata raggiunta prova della circostanza), non rivestendo, dopo tale periodo, l’appellante alcun ruolo che gli consentisse di agevolare l’operato del C.V.N.

Dagli atti di causa emerge (cfr. doc. n. 33, fasc. Procura di primo grado) che il X ha percepito i seguenti importi stipendiali netti: anno 2000, € 84.280,00; anno 2001, € 86.286,00; anno 2002, € 89.076,00; anno 2003, € 94.114,00; anno 2004, € 101.380,00; anno 2005, € 106.560,00 (di cui € 57.378,46 quale retribuzione media fino a luglio, pari a 7/13 dell’importo annuale). Per un totale di € 512.514,46, la cui metà risulta pari a € 256.257,23 che rappresenta la misura del danno erariale di cui deve rispondere in questa sede.

A tale somma andranno aggiunti gli accessori con le decorrenze statuite nella sentenza di prime cure, sul punto non impugnata, ossia la rivalutazione monetaria, a decorrere dalla data di notificazione dell’atto di citazione di primo grado e interessi legali dalla pubblicazione della pronuncial gravata e fino all’effettivo soddisfo.

Alla luce delle superiori argomentazioni, la sentenza impugnata andrà, dunque, parzialmente riformata e, per l’effetto, condannato l’appellante al più limitato importo sopra veduto.

Le spese del presente grado di giudizio sono compensate in ragione della reciproca soccombenza parziale.

P.Q.M.

la Corte dei conti, Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello, definitivamente pronunciando sul giudizio iscritto al n. 55975 del ruolo generale, disattesa ogni contraria istanza, eccezione o deduzione, accoglie l’appello, nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in parziale riforma dell’impugnata sentenza,

condanna

X, come sopra meglio generalizzato, al pagamento, in favore della Corte dei conti, della complessiva somma di € 256.257,23, oltre accessori come in parte motiva.

Spese del presente grado di giudizio compensate.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18.2.2021.

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