venerdì, Marzo 29, 2024
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Brucia l’Italia. Non c’è prevenzione e non riusciamo a punire gli incendiari

di Salvatore Sfrecola

L’Italia brucia. Bruciata la Pineta dannunziana di Pescara, riserva naturale nota come Parco D’Avalos. Gabriele D’Annunzio l’ha citata più volte ne “Le novelle della Pescara”. Bruciati nei giorni scorsi ettari di macchia mediterranea in Sardegna, pascoli e animali, una tragedia per la pastorizia. Né è stata trascurata la Sicilia ad altre aree, soprattutto nel Meridione. A molti sembra quasi un “male di stagione”, un fatto inevitabile quando la colonnina di mercurio sale vicino ed oltre i 40 gradi. Non è che un’altra dimostrazione dell’assoluta inadeguatezza degli apparati pubblici nella prevenzione a livello statale, regionale e comunale. Perché, va detto con chiarezza, i boschi e la macchia mediterranea perduti nelle settimane scorse non sono quasi mai effetto di fenomeni di autocombustione, come è stato spiegato più volte in televisione dagli addetti al controllo del territorio, in particolare dai Carabinieri forestali.

Gli incendi che ogni anno devastano l’intero Paese, non solamente al Sud, sono opera di incendiari, persone che, il più delle volte per interessi vari, dalla forestazione alla gestione delle aree boschive, appiccano il fuoco, come dimostra il fatto che in ogni caso nel corso delle operazioni di spegnimento viene sistematicamente accertata la presenza di inneschi abilmente disseminati sul territorio per fare il massimo danno possibile. Tutto ciò nella assoluta assenza di qualsiasi gestione del sottobosco, dove le sterpaglie, le foglie ed i rami secchi, che si accumulano nel corso dell’inverno e della primavera, costituiscono un materiale altamente incendiario. Tenere pulito il sottobosco costituirebbe attuazione dell’aurea regola secondo la quale prevenire costa meno di quanto occorre per ricostruire e indennizzare. Prevenire è espressione di quella “ordinaria amministrazione” che costituisce il primo dovere di chi governa. In questo Paese da sempre ignorato. Nonostante oggi vi siano strumenti di controllo del territorio che, affidati a sensori di temperatura, a telecamere, a droni che possano sorvolare le aree a rischio, consentirebbero quantomeno di individuare immediatamente l’insorgenza di un focolaio e far scattare l’allarme.

Poi ci sono gli idioti o gli sbadati, incapaci di gestire il fuoco attizzato per buoni motivi, per bruciare le stoppie o per qualche altra attività contadina spesso gestita in modo imprudente. In Umbria, alcuni anni fa, una volonterosa massaia, che faceva bollire bottiglie di pomodoro in un calderone ai margini di un bosco, ha mandato in fumo ben 25 ettari di una splendida macchia.

Nessuno le ha chiesto ragione della sua disattenzione e del danno provocato al pubblico erario a carico del quale sono stati spesi fior di soldi per spegnere l’incendio, impiegando Pompieri e volontari, un elicottero e tutto quel che occorreva per domare le fiamme. La regola è antica ma sempre valida, chi sbaglia deve pagare. E nel caso degli incendi coloro i quali vengono individuati come responsabili dovrebbero essere chiamati a rispondere dei costi che lo Stato, la Regione, il Comune hanno sostenuto per far fronte all’incendio. Lo sostengo da sempre, convinto che la pena più efficace è quella “in denaro”, il risarcimento del danno causato alla comunità, in questo come in tutti gli altri casi.

All’epoca, da Procuratore regionale della Corte dei conti per l’Umbria, sollecitai invano la Presidenza del Consiglio a costituirsi parte civile nel processo penale a carico dell’incendiaria. L’obiezione è sempre la stessa, non possiamo recuperare centinaia di migliaia di euro o milioni da gente che potrebbe disporre di un patrimonio limitato. E si trascura che se non è possibile recuperare l’intero importo del danno la “sanzione risarcitoria” può essere comunque significativa per la persona perché il sequestro dei beni posseduti dall’incendiario, la casa, la macchina, i conti in banca fa certamente male. E se l’incendiario è lo “scemo del villaggio” vuol dire che coloro che ne hanno la custodia d’estate potrebbero tenerlo a casa. Poco? Forse, ma la reazione dello Stato, finalmente capace di punire seriamente chi attenta alla pubblica incolumità e danneggia l’erario, da un lato costituirebbe un deterrente, dall’altro rassicurerebbe i cittadini perbene.

È facile constatare, infatti, che nei confronti degli incendiari la sanzione penale ha scarsa efficacia, nonostante la formale severità della norma che prevede all’articolo 423-bis, per la fattispecie dell’incendio boschivo, una reclusione da quattro a 10 anni. Ma se l’incendio è cagionato per colpa la pena è della reclusione da uno a cinque anni e noi sappiamo che il governo Renzi ha promosso l’introduzione nel codice penale dell’art. 131-bis (Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto) in ragione della quale “Nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’articolo 133, primo comma, l’offesa è di particolare tenuità e il comportame

n abituale”.

Insomma, se prima era difficile condannare un incendiario anche quando arrestato in fragranza, con l’art. 131-bis c.p., in caso di reato colposo, è praticamente impossibile.

Eppure siamo giornalmente interessati da ambientalisti di varia colorazione che ci dicono delle variazioni climatiche che, sappiamo bene, sono favorite anche dalla carenza di verde. Noi che ne abbiamo tanto dovremmo fare in modo di conservarlo e di ampliarlo. Ma non lo facciamo.

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