giovedì, Ottobre 10, 2024
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Quirinale all’asta. E torna voglia di Re

di Salvatore Sfrecola

Ricordo un mio amico inglese che, tra lo stupito e il divertito, osservava, dinanzi al televisore, il susseguirsi delle votazioni per la elezione del Presidente della Repubblica. A lui, fedele a The Queen, quel rituale sembrava strano. Era il 1971 e Giovanni Leone fu eletto alla ventitreesima votazione, due più di Giuseppe Saragat il suo predecessore.

Mancano quasi quattro mesi, ma già fervono le “riflessioni” tra politici, politologi e quirinalisti alla ricerca del candidato ideale. E insieme al mio amico inglese che si stupì nel 1971 altri si stupiscono oggi. Anzi, qualcuno si preoccupa immaginando una possibile scelta non gradita, quanto alla persona e alla ipotesi che dia vita ad una sorta di semipresidenzialismo “di fatto” in barba alla Costituzione. Ne ha parlato, tra gli altri, Giancarlo Giorgetti, che non è l’ultimo arrivato, perché incarna l’anima governativa della Lega. E così, come accade puntualmente ogni sette anni, qualcuno evoca la monarchia e immagina la differenza, se al Quirinale sedesse un Re anziché un politico.

Ne ha scritto su Il Foglio del 12 Antonio Gurrado (“Di fronte alla corsa per il Quirinale conviene rivalutare la monarchia”). Che esordisce rilevando come “In Italia quando dici che sei monarchico ti guardano tutti strano, nonostante che siano monarchie varie nazioni dalla storia grande almeno quanto la nostra, come Gran Bretagna e Spagna, ma anche l’Olanda, il Belgio, la modernissima Svezia, l’avveniristico Giappone; nonostante che in Europa i primi decisivi passi verso la democrazia siano stati mossi grazie all’evoluzione plurisecolare della monarchia; e nonostante che al mondo i principali Stati dittatoriali, paradittatoriali o illiberali, tipo la Cina, l’Iran, la Turchia, la Russia, l’Ungheria, per tacer dell’Africa, siano tutti repubbliche”.

Gurrado crede che tra gli italiani che non credono nella monarchia ciò sia perché “desta sospetto il sistema dell’ereditarietà del titolo di Capo dello Stato e garante della Costituzione, a fronte di un cristallino sistema di selezione che prevede mesi di retroscena, articolate esegesi di mezze frasi, proposta di rinnovo automatico del titolare, esclusione del rinnovo automatico da parte dell’interessato, candidati prematuri presentati apposta per essere bruciati, ipotesi alternative patafisiche, qualche donna da tirare in ballo per far vedere che si è moderni, escursioni nel semipresidenzialismo di fatto, richiami alla lettera della Carta, nessun pretendente ufficiale, tutti pretendenti sottobanco, franchi tiratori a iosa, voti a Giancarlo Magalli, plauso unanime dell’emiciclo al carro del vincitore, polemiche sotterranee sull’imparzialità dell’eletto, e così via”. E conclude, “in Italia quando dici che sei monarchico ti guardano tutti strano,tranne una volta ogni sette anni.

Dunque, sarebbe, in realtà, la ereditarietà della Corona a disturbare, anzi a “destare sospetto”. Cosa che non accade in nessuno degli stati retti a monarchia, a cominciare dal Regno Unito, in onore al mio amico inglese, dove la Regina si dice porti due punti al PIL, come un brend che identifica una storia, una tradizione, un popolo. Che richiama turisti nell’isola o in Scozia, che visitano le residenze reali, che acquistano gagget con l’immagine della Sovrana e dello stemma dei Windsor.

In realtà c’è molto di più che attira, anche inconsapevolmente. Nel sistema politico costituzionale del Regno di Sua Maestà Elisabetta II la democrazia si è formata e consolidata proprio perché il Sovrano assicura la neutralità del vertice dello stato che garantisce ai cittadini, governino i Conservatori o i Laburisti, che non sono in discussione i principi della separazione dei poteri, cioè la democrazia liberale. Non a caso, infatti Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu ha formulato la teoria che lo ha reso famoso, consegnata ne L’esprit des lois,proprio osservando a Londra come fosse organizzato lo stato nella distinzione dei ruoli del governo, del parlamento e della magistratura e come il Re ne garantisse l’indipendenza e l’autonomia, proprio in ragione della sua estraneità alle scelte dei partiti che se il capo dello stato fosse eletto ne farebbero “uno di loro”.

È quel che mi dice Alessandro Sacchi, Avvocato cassazionista, Presidente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.). “Abbiamo presentato proprio venerdì scorso, durante un dibattito che si può vedere su You Tube, un libro di grande interesse, del Prof. Salvatore Aceto di Capriglia, ordinario di diritto privato comparato alla Partenope di Napoli, che ha scritto de “Il regio potere arbitrale e clemenziale”, un piccolo volume ma prezioso, che offre una panoramica stimolante del ruolo super partes dei sovrani, lungo i secoli, a dimostrazione che il buon funzionamento delle istituzioni deriva dalla estraneità del vertice dello stato alla contesa dei partiti. Una condizione che, all’avvento degli ordinamenti liberali e democratici, ne ha consentito lo sviluppo proprio perché il cittadino, guardando al suo Re, sa che nessun partito, nessuna maggioranza potrà prevaricare e trasformare lo stato. Ne abbiamo esempi a iosa. In Germania il partito nazista si è impadronito dello stato, con le conseguenze che conosciamo. Cosa che non è potuta accadere in Italia in presenza del Re”. D’altra parte, aggiungo io, le monarchie rappresentano l’immagine viva della storia di un popolo che è diventato tale ed ha consolidato le istituzioni statali attraverso una serie di sovrani che ne hanno assicurato l’indipendenza nei confronti di vicini prepotenti. L’Italia è stata un esempio di questa evoluzione storica. Costretti a vivere per secoli sotto il tallone di francesi, spagnoli ed austriaci, i nativi del bel Paese hanno potuto riunirsi in uno stato quando un Re, appartenente alla più antica famiglia regnante dell’Europa, quella di Savoia, si è messo alla testa del moto risorgimentale e, coinvolgendo uomini di pensiero e di azione, anche repubblicani, come Garibaldi, ha saputo dar vita ad un Regno che ha restituito dignità agli italiani per secoli “calpesti/derisi”, come sentiamo dall’Inno nazionale. Ed è, quindi, plausibile che, almeno “ogni sette anni”, come ha scritto Gurrado, nel vedere le grandi manovre dei partiti per mandare “uno dei loro” al Quirinale qualcuno si scopre monarchico.

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