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Ad un anno dalla morte ci manca Domenico Giglio, l’amico, il compagno di tante battaglie culturali

di Salvatore Sfrecola

È trascorso un anno da quel 3 agosto 2021 quando Domenico Giglio ha lasciato sgomenti non soltanto i Suoi familiari, la carissima moglie, Maretta, le figlie, Elena, Ludovica e Stefania ed i nipoti, ma anche i tanti amici che gli erano stati vicini nel lavoro, nelle attività politiche e culturali e nel Lions. 

È trascorso un anno e ci manca sempre di più l’amico di tante battaglie culturali e politiche, da ultimo con il Circolo Rex, “il più antico circolo culturale della Capitale”, fondato nel 1948, come amava ricordare, che aveva seguito dal 1960, per divenirne prima vicepresidente (1969) e poi presidente (2009), ultimo di una serie di prestigiose personalità fedeli a Casa Savoia. Come Carlo d’Amelio che del Re Umberto II era stato l’avvocato, una personalità del Foro romano, già Governatore del distretto Rotary.

Era un oratore brillante Domenico. Sempre documentato parlava a braccio senza un appunto, senza interruzioni, neanche di quelle che accompagnano un attimo di riflessione, snocciolando citazioni, nomi e date.

Professionista di valore, aveva una vastissima cultura ed una passione politica che lo ha tenuto sempre giovane, come lo avevo conosciuto nel Fronte Monarchico Giovanile, l’organizzazione dei “ragazzi” dell’Unione Monarchica Italiana. Nel 1958 era entrato a far parte della Direzione Nazionale del P.N.M fino a quando, nel 1961, il partito si trasformò nel P.D.I.U.M. (Partito democratico italiano di unità monarchica). Passato all’opposizione del segretario nazionale Covelli, nel 1972, in seguito alla confluenza del P.D.I.U.M. nel M.S.I., Domenico abbandonò il partito e fondò Alleanza Monarchica un circolo culturale-politico che voleva mantenere vivo l’ideale monarchico.

Domenico scriveva spesso anche per “Un Sogno Italiano”, quando un evento politico, un articolo di giornale, una trasmissione televisiva lo inducevano ad intervenire, commentando con piglio deciso e documentato quel che non condivideva. Ed erano spesso questioni legate ad interpretazioni storiche di fatti che conosceva profondamente, sui quali si era documentato, spesso addolorato per il modo con cui venivano ricordati eventi e uomini ai quali aveva riservato attenzione negli anni. È stato un campione dell’ideale risorgimentale della Monarchia Parlamentare che con lo Statuto Albertino ha introdotto nell’ordinamento dello Stato regole fondamentali della democrazia liberale, come i diritti politici delle persone, che oggi non si amano ricordare, soprattutto quando sono state pressoché integralmente riportate nella Costituzione repubblicana, a dimostrazione della lungimiranza del legislatore del 1848 che, farà dire al repubblicanissimo Pietro Calamandrei in Assemblea costituente dello Statuto Albertino “vedete come è chiaro e sobrio”.

Giglio amava l’Italia liberale dei Cavour e dei Sella, uomini che avevano anteposto l’impegno pubblico agli interessi personali. Grandi amministratori della finanza e dell’economia, impegnati a governare un Paese difficile, già allora a diverse velocità, con storie che nei secoli erano state condizionate dalla presenza ingombrante di potenze straniere, la Spagna, la Francia, l’Austria, pertanto da secoli “calpesti/ derisi”, come recita la Canzone degli Italiani, l’Inno di Mameli. Domenico Giglio era consapevole del ruolo unificante avuto dai sovrani di Casa Savoia che avevano saputo costituire un punto di riferimento perfino per chi era lontano dall’ideale monarchico, come il campione dei repubblicani, Giuseppe Mazzini, che scrive prima a Carlo Alberto, poi a Vittorio Emanuele II comprendendo che solo loro avrebbero potuto dar vita allo Stato nazionale. E poi Garibaldi, fedelissimo al Re Vittorio.

Non sono il solo a sentire la mancanza di Domenico. Non era un nostalgico. La sua passione politica si fondava su una ragionata adesione ad un assetto dei poteri dello Stato che vede nel vertice istituzionale un ruolo di garante imparziale del sistema politico. Ne abbiamo parlato più volte, lui ingegnere io giurista, entrambi preoccupati del buon funzionamento delle Istituzioni e della “macchina dello Stato”. Scriveva spesso del Re Vittorio Emanuele III e ne difendeva il ruolo straordinario, fin dai primi giorni dell’ascesa al trono insanguinato dall’uccisione del padre, Umberto I, quando volle avviare il rinnovamento dello Stato respingendo le proposte di quanti intendevano approfittare del regicidio per avviare una stretta sulle rivendicazioni popolari ed operaie.

Quel Re avrebbe salvato ancora l’Italia nel 1917, a Peschiera, rivendicando, di fronte ai capi politici e militari delle potenze alleate il valore del soldato italiano, che avrebbe, come è stato, riscattato Caporetto. Ed ancora il 25 luglio 1943, quando prese atto della fine del regime fascista per riassumere i poteri statutari, dei quali la dittatura lo aveva privato, e riprendere in mano le sorti della Patria e salvarla l’8 settembre, pur tra le inevitabili tragedie dell’invasione tedesca, mantenendo alta la bandiera del Regno. Non dimenticava, Giglio, questi passaggi cruciali e difendeva, contro gli opportunisti, il ruolo del “Suo Re”.

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