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28 ottobre 1922: quando Re Vittorio evitò la guerra civile

di Salvatore Sfrecola

“Desidero che gli italiani sappiano che io solo non ho voluto firmare il decreto dello stato d’assedio”. Così Vittorio Emanuele III, parlando con Cesare Maria De Vecchi, uno dei Quadrunviri della Marcia su Roma, fascista di area monarchica. “Io solo”, un’assunzione di responsabilità dinanzi alla storia. E così evitò la guerra civile e “spargimenti di sangue”, come, del resto, si chiedeva all’esercito in un telegramma della vigilia, nel caso fosse stato chiamato ad intervenire.

In un passaggio cruciale della vita della Nazione il Re assicurò la continuità dello Stato, come aveva fatto nel 1900, all’indomani dell’assassinio del padre, quando respinse le sollecitazioni di ambienti reazionari che volevano approfittare del regicidio per attuare una stretta sui movimenti operai, nel 1917 quando a Peschiera difese l’onore del soldato italiano imponendo agli alleati riluttanti la difesa estrema sul Piave, il 25 luglio 1943, quando riprese i poteri statutari decretando la conclusione dell’esperienza fascista, l’8 settembre dello stesso anno quando, stipulato l’armistizio con gli anglo-americani per evitare al popolo italiano ulteriori sofferenze, ha consentito al Regno d’Italia di sopravvivere, nonostante la sconfitta nella guerra a fianco dei tedeschi, voluta da Benito Mussolini che nessuno desiderava e che non avevamo interesse a fare.

Non firmò il Re. Non poteva farlo, perché quella deliberazione del Consiglio dei ministri che nella notte del 27 ottobre aveva decretato lo “stato d’assedio” era decisione di un governo dimissionario, in carica esclusivamente per il disbrigo degli “affari correnti”, tra i quali certamente non rientra un provvedimento extra ordinem con sospensione delle libertà costituzionali e affidamento dell’ordine pubblico all’Esercito, cosa che fino ad allora era avvenuta solamente in ambiti territoriali ristretti ad iniziativa di prefetti sostenuti da direttive del ministro dell’interno di governi in carica.

In quelle giornate convulse, nel corso delle quali il Re aveva consultato ripetutamente tutti gli esponenti della vita politica italiana, delle varie appartenenze, quando fu evidente che non vi era altra soluzione alla crisi di Governo, in un contesto di grave e diffuso turbamento sociale, che si trascinava da anni senza che la classe politica si assumesse la responsabilità di indicare una soluzione sorretta dalla maggioranza parlamentare, Vittorio Emanuele III diede l’incarico di formare il governo al Segretario del Partito Fascista. E fu un Governo che, con l’appoggio di partiti e personalità di vari orientamenti politici, ebbe il voto della maggioranza della Camera. Un dato che sfugge ai critici del Re i quali lo ritengono, ingiustamente, complice della successiva deriva autoritaria al momento certamente non prevedibile, fino a divenire presto un regime. Non lo previde neppure Benedetto Croce, liberale, storico e filosofo illustre, che nel 1925 avrebbe scritto il Manifesto degli intellettuali antifascisti.

Oggi in un bell’articolo su La Verità Marcello Veneziani ricorda che Palmiro Togliatti, leader del Partito Comunista Italiano, parlando a Bari, il 23 marzo del 1952, nel corso di una conferenza dedicata a Gramsci, aveva affermato: “quando il fascismo costituisce il governo, quale è il partito che gli nega la collaborazione? Nessuno! Nel primo governo Mussolini vi erano quattro popolari, due liberali, due nazionalisti e cinque democratici”. I detrattori del Re, dunque, dovrebbero rivolgerle altrove le critiche, soprattutto agli eredi di quei movimenti politici che non seppero affrontare la crisi economica e sociale del primo dopoguerra e, poi, abbandonarono la Camera (l’Aventino) dando mano libera alla manomissione dello Statuto del Regno.

Si tratta di un contesto che, pur studiato e approfondito sulla base della copiosa documentazione disponibile, noi abbiamo difficoltà a percepire oggi, con l’esperienza dei nostri giorni. Quel che accadeva fin dal 1919 appare per noi oggi inconcepibile, nel senso che violenze politiche, con devastazione di locali di partiti, di sindacati e di associazioni varie, morti e feriti non sono all’ordine del giorno dei nostri tempi. Con l’occupazione delle fabbriche ma anche delle sedi istituzionali, delle prefetture e dei municipi. Va considerato anche che questa situazione che si è trovato a affrontare il governo Facta era, dal punto di vista politico, molto grave a causa dell’indisponibilità di esponenti importanti delle forze politiche, pur sollecitati dal Sovrano, ad assumere un impegno governativo, da Giolitti a Strurzo a Turati, un dato che sottolinea, va detto con estrema determinazione, una profonda crisi della politica, incapace di affrontare il contesto economico e sociale che in Italia e in altri paesi d’Europa era seguito agli eventi bellici da poco conclusi.

È evidente, infatti, che la fine della guerra e la necessità di riconversione dell’industria che aveva in tutti i settori supportato le esigenze dello sforzo bellico non poteva non essere dolorosa sul piano dell’occupazione perché una industria che produce armamenti non può da oggi a domani mantenere gli stessi livelli occupazionali con l’idea di convertire la produzione di cannoni, tanto per fare un esempio, in macchinette per il caffè. La crisi grave che si dipana molto bene negli editoriali di Luigi Einaudi per il Corriere della Sera era tale che sarebbe stato necessario l’impegno di una classe politica coesa con uomini capaci di guardare ad una trasformazione dell’economia nazionale con l’evidente aiuto dello Stato che poteva essere realizzato in vari modi, patrocinando delle produzioni sostenendone l’impegno mentre le forze politiche si erano divise fra la protesta proveniente soprattutto dai partiti di ispirazione operaia e le classi medio borghesi. Le une e le altre colpite profondamente dalla guerra, perché se gli operai hanno perso il lavoro nelle fabbriche in fase di riconversione delle produzioni non c’è dubbio che le classi borghesi, quelle che avevano fornito all’esercito in guerra i contingenti di ufficiali, avevano subito il danno professionale della mancata attività. Avvocati, medici, ingegneri avevano perduto la clientela così come, nonostante l’elevato impegno delle donne, anche le campagne avevano subito gli effetti della crisi sociale accompagnata dalla crisi economica. Difficile da comprendere agli uomini di oggi, questa crisi ha trovato, come dicevo, una classe politica impreparata, comunque aggredita da destra e da manca da tentativi anche insurrezionali che preoccupavano molto in un contesto che sembrava ricordare la rivoluzione bolscevica in Russia.

Va detto in conclusione che la figura del Re, naturalmente bistrattato da tutta la retorica antifascista, ha garantito in quegli anni difficili la sopravvivenza dello Stato e di qualche sprazzo di libertà, anche se era diffusa l’opinione che fosse perduta. Immaginiamo per un attimo che l’Italia fosse stata, come la Germania, una Repubblica. Il vertice sarebbe stato occupato dai fascisti senza la remora della presenza del Re, che poteva contare su una diffusa fedeltà dell’esercito e delle forze armate, anche se Mussolini molti aveva abilmente conquistato, con gradi ed onorificenze. Eppure, il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio del Fascismo vota l’ordine del giorno Grandi, il documento è impostato sul ripristino delle libertà costituzionali e statutarie restituendo al Sovrano i poteri che gli erano stati sottratti nel tempo. Questo significa che la sua persona manteneva notevole prestigio, anche nel momento difficile del favore popolare al Duce, unanimemente riconosciuto dagli storici. Eppure non era stato sufficiente ad evitare le leggi razziali che, va detto, furono votate dal Parlamento all’unanimità, e l’entrata in guerra nella quale il Sovrano fu di fatto estromesso e che ha dovuto subire. E se il Re avesse abdicato, nel 1938 o nel 1940, come qualcuno comodamente seduto nel salotto di casa sua oggi suggerisce giudicando i fatti di allora, in Italia sarebbe accaduto quel che sappiamo è stato in Germania, cioè la totale distruzione del territorio, senza quel minimo di ripresa data dall’armistizio e dalla successiva collaborazione con gli angloamericani.

Dice bene Prezzolini, come ricorda Marcello Veneziani su La Verità,“la monarchia è sopravvissuta al fascismo che dominerà per tutta una generazione e dal quale non ci libererà altro che un disastro nazionale”, aggiungendo che sarebbe durato venticinque anni. E qualche mese dopo annotava sul suo diario: “Mussolini non ha potuto levar di mezzo la monarchia, e la monarchia finirà col levar di mezzo lui”.

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