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In difesa degli studi classici. Un patrimonio per tutte le professioni

di Salvatore Sfrecola

Non avrei potuto dire meglio di Massimo Gramellini nel sottolineare, sul Corriere della Sera del 1° febbraio, il valore del liceo “classico”, una realtà sperimentata personalmente e nell’osservazione lungo anni di attività di studio e professionali, condivisa, come dirò, da illustri personalità della cultura, da Umberto Eco a Vito Mancuso a Fabrizio Pezzani per richiamare i più noti al grande pubblico.

Ho poco da aggiungere. Se non recare, a conclusione di una carrellata di idee e di testimonianze, la mia personale quale studente del ginnasio-liceo “Torquato Tasso” di Roma.

Scrive Gramellini: “Poche notizie mi rendono pessimista sul futuro come la caduta inarrestabile delle iscrizioni al liceo classico: il prossimo anno lo frequenterà appena il 5,8% degli alunni di terza media che proseguiranno gli studi. Il classico non è nello spirito del tempo, secondo cui la scuola serve solo a trovare lavoro. E poiché si pensa che il mondo di domani avrà più bisogno di tecnici che di umanisti, studiare l’Iliade sembra a molti una perdita di tempo. Avrei parecchio da obiettare su questo punto (fior di economisti e ingegneri provengono dal classico), ma prendiamolo per buono. Però non fin dall’adolescenza, dai.

A quattordici anni nessuno sa ancora chi è: invece di restringergli il campo, bisogna allargarglielo a dismisura. Tutte le passioni della mia vita le ho assaggiate a quell’età, comprese la musica e lo sport, di cui leggevo le cronache sotto il banco durante le lezioni più noiose. Ma erano le cronache di Gianni Brera, uno che sapeva coniugare il racconto della partita con l’epica di Omero. È vero, il classico non ti spiega «come» funziona il mondo, ma in compenso ti abitua a chiederti «perché». A capire le cause delle cose, a snasare il conformismo degli anticonformisti, ad addestrare i sensi e la mente per riuscire a cogliere la bellezza in un tramonto o anche solo in una vetrina. Il classico è come la cyclette: mentre ci stai sopra, fai fatica e ti sembra che non porti da nessuna parte. Ma quando scendi, scopri che ti ha fornito i muscoli per andare dappertutto”.

“Fior di economisti ed ingegneri provengono dal classico”. Quel che scrive Gramellini è vero. Ed è sbagliata l’opinione che il classico formi prevalentemente letterati, storici, filosofi, avvocati e magistrati, tanto per semplificare. Dal mio liceo è uscito un presidente dell’istituto di fisica nucleare. Economisti come Luigi Einaudi o Mario Draghi provengono dal liceo classico. E poi scienziati come  Fermi, Rita Levi Montalcini, Maiorana, Dulbecco, solo nelle scienze in Italia. Ma se alziamo la testa verso la storia abbiamo Keynes, von Hayek, von Mises, Freud, Einstein, Marx, Leibnitz, Heisenberg. Ricorda il Prof. Pezzani, economista, che Bernard Shaw disse: “Otto uomini possono essere indicati come facitori del mondo“ ed indicò i nomi di Pitagora, Aristotele, Tolomeo, Copernico, Galileo, Keplero, Newton ed Einstein “, tutti avevano la stessa cultura classica come fonte d’ispirazione.

Anche Umberto Eco (Elogio del Liceo Classico, in L’Espresso,10 ottobre 2013) aveva segnalato perplessità alla notizia, ricorrente, della diminuzione delle iscrizioni al liceo classico, se “la ragione addotta è che non offre sbocchi professionali […]”. Ed aggiungeva: “Se […] si pensa all’università, il classico offre la possibilità di fare qualsiasi facoltà, ingegneria compresa, e quindi il problema non esiste, ovvero si sposta sugli sbocchi professionali dopo l’università, ed è certo che forse diventare dentista piuttosto che professore di filosofia apre maggiori possibilità di comperarsi una barca. Ma so di gente laureata in lettere che ha fatto grandi carriere, in banca e alle massime magistrature dello Stato, si veda, tanto per dirne una, Ciampi […]. Prepararsi al domani vuole dire non solo capire come funziona oggi un programma elettronico ma concepire nuovi programmi. E accade che gli studi classici (compreso sapere che cosa aveva detto Omero, ma soprattutto la capacità di lavorare filologicamente su un testo omerico – e avere fatto bene filosofia e un poco di logica) sono quelli che ancora possono preparare a concepire i mestieri di domani […]. Solo chi ha il respiro culturale che può essere offerto da buoni studi classici è aperto all’ideazione, all’intuizione di come andranno le cose quando oggi non lo si sa ancora. In altre parole, vorrei dire che chi ha fatto buoni studi classici, se non è forse capace di fare bene i mestieri esistenti, è più aperto ai mestieri di domani e forse capace di idearne alcuni. Ma certamente è una sfida. Chi ha paura del classico è meglio prenda altre strade, perché la vita è crudele e – anche se non è politicamente corretto dirlo -appartenere alle élites è rischioso e faticoso […].

Anche Vito Mancuso, Teologo, ha scritto “Elogio del liceo classico” (in La Repubblica del 12 gennaio 2018). Iniziando da un ricordo personale, quello di un giovane studente il quale riceveva spesso dagli amici che frequentavano “altre scuole” un’osservazione che anche lui, non di rado, muoveva a sé stesso: “ma a che servono il greco e il latino? Perché tanto dispendio di energie per studiarli?” Era il tempo in cui l’inglese non aveva ancora assunto l’importanza odierna e l’informatica non la conosceva nessuno “perché nessuno aveva un personal computer”. E, a proposito dell’affermazione secondo cui il greco e il latino “aprono la mente”, o “aiutano a ragionare”, conviene che “oltre ad aprire veramente la mente a chiunque li pratichi, a noi italiani, che parliamo una lingua che del latino è la continuazione ininterrotta, le lingue classiche fanno conoscere le radici della nostra lingua, e quindi di noi stessi, della nostra storia e della nostra civiltà. Penso non ci sia bisogno di convincere nessuno del fatto che per conoscere veramente il presente, e quindi per agire fruttuosamente sul futuro, occorra conoscere il passato”.

E più avanti: “la nostra mente non si arricchisce almeno un po’ quando prende consapevolezza dell’origine delle parole di cui fa uso? Il punto vero però non è questo, il punto vero è l’otium. Com’è noto, l’otium latino non è l’ozio italiano, ma è il tempo libero, o per meglio dire il tempo liberato dal lavoro, e dedicato alla lettura, allo studio, alla riflessione. Non è inattività, ma un altro tipo di attività. Ciò che Aristotele diceva della filosofia, a mio avviso si può dire oggi dell’intera civiltà classica: “Come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna sarà superiore” (Metafisica, I, 2).

Mancuso conclude con l’affermazione che “nella difesa della cultura classica, e del luogo che ne è il simbolo cioè il liceo classico, si gioca la grande partita dell’umanesimo, di chi vogliamo essere veramente: se solo faber, o ancora, nonostante tutto, sapiens”.

Anche Fabrizio Pezzani, professore ordinario di economia aziendale dell’Università Bocconi ha scritto per Formiche del 5 settembre 2015 “Elogio del Liceo Classico contro una riforma antistorica”.

“Siamo ormai nella bufera delle riforme in un contesto dove si susseguono a ripetizione, ma senza una visione della storia, senza uno scenario futuro a cui tendere, senza porsi le domande essenziali su chi siamo, da dove veniamo e dove vogliamo andare”. E contesta alcune dichiarazioni rilasciate dal governo (il Ministro dell’istruzione era Stefania Giannini), che “specie sul non-ruolo del liceo classico, danno evidenza di superficialità, di limitata cultura vera e finiscono per cadere in una demagogia pericolosa perché alla lunga, pur con tutte le buone intenzioni di questo mondo, non si impara la lezione che ci sta dando la Storia. Tra le riforme “buone“ – gli aggettivi non sostituiscono i contenuti e vanno definiti rispetto al fine (buona per che cosa?) – quella della scuola ha alcuni aspetti certamente positivi ma il dibattito sul liceo classico e sull’inutilità delle lingue morte spiega meglio di ogni altro argomento la percezione, sopra indicata, della non corretta percezione del reale momento storico che stiamo vivendo”. E ritiene che il “giudizio di inutilità delle lingue morte è la pericolosa deriva culturale del dibattito” sulla scuola “proprio oggi che l’umanesimo diventa la strada da percorrere per superare l’era dei barbari, come Vico aveva definito nel ripetersi delle storie l’estremo limite del degrado sociale e morale che segna “i corsi ed i ricorsi storici“. Il grande G. B. Vico che scrisse la “Storia nuova“ nel 1725 aveva avuto un’intuizione geniale sulla ripetitività della storia perché la natura del suo attore non è mai cambiata e la storia viene dettata dalla natura emozionale dell’uomo perennemente dibattuto tra la strada dell’aggressività e quella della solidarietà – l’Eros e la Thanatos in greco antico – che il genio di Freud, profondo studioso del greco e del latino, aveva analizzato disegnando la struttura psichica della natura umana”.

Ed oggi “il pensiero unico tecnico-razionale ha soffocato il pensiero creativo ed intuitivo” e “la deificazione della tecnica e del principio di utilità ha come “nemesi“ la crescente aridità nel campo delle conquiste artistiche, filosofiche, religiose ed anche scientifiche. È almeno da Keynes, profondo studioso degli studi classici, che non si produce una teoria generale e proprio lui in “La fine del laissez fair“ scriveva: “uno studio approfondito della storia del pensiero è premessa necessaria all’emancipazione della mente il cui fine è rivolto al perseguimento della massimizzazione del bene morale ovvero della massimizzazione del valore dei comportamenti umani intersoggettivi quali affetti personali, verità e bellezza“; alla fine la storia ha dato ragione a lui ed ha sconfessato alle fondamenta la scuola di Chicago che ha contribuito a deificare la finanza”.

“Di conseguenza – prosegue Pezzani – la scuola mostra scarso interesse, ammesso che vi sia, verso lo scopo, oggi dimenticato, di ogni effettiva forma di conoscenza e sapienza: la natura del sapere vero e dei valori veri “, scriveva Pitirim Sorokin nel 1941 (!) nel suo lavoro “ La crisi del nostro tempo “ che sembra scritto domani. Il liceo classico, lo dice uno che ha fatto lo scientifico ma allora veniva scelto il liceo più comodo per la casa e comunque rimane una importante scuola, fu introdotto da Giovanni Gentile che prese atto di quanto la cultura classica fosse fondamentale per sviluppare il pensiero e la creatività, qualità che oggi sono inaridite. È la storia dell’uomo a mostrare quanto la conoscenza ed il pensiero siano fondamentali per portare avanti le società nel tempo”.

Oltre agli scienziati già richiamati, ricorda Pezzani, “tutti i grandi politici che hanno esteso il Commonwealth studiavano a Oxford ed a Cambridge dove le materie di base erano quelle classiche a partire dal greco e dal latino ed hanno assorbito una visione più integrale della natura umana e delle modalità con cui si evolve la Storia. Da quando è prevalso il modello culturale tecnico – razionale si è perso il contatto con lo scorrere della storia perché si guarda solo al futuro come garanzia di successo; così l’“homo sapiens “, come abbiamo presunto di chiamarci, mentre sembra molto attento a capire le cause e gli effetti dei malanni fisici mostra di non riuscire a capire più le relazioni tra cause ed effetti nella sua storia; si comporta come se il passato non fosse mai esistito e come se la storia non avesse mai mostrato simili a quelle a cui si trova davanti spinto ad una forma di coazione a ripetere. Le conseguenze di questa cecità storica sono davanti ai nostri occhi ogni giorno nel vedere i disastri compiuti dalla politica estera degli Usa dominata dall’idea della potenza della tecnica ed incapace di capire la Storia perché la sua classe dirigente ha perso il contatto con quella ed ha dimenticato la lezione culturale dei padri fondatori che erano usi a parlare in latino e greco. Se il principio di utilità è l’unico principio che vale serve solo ciò che utile cioè strumentale anche la stessa vita può diventare un mezzo per realizzare desideri materiali di breve tempo”.

La conclusione è che “abbiamo perso la capacità di pensare perché il pensare costa fatica, tempo, non paga subito ed è pericoloso come diceva Bertrand Russel: “Gli uomini temono il pensiero più di ogni altra cosa al mondo più della rovina e persino più della morte. Il pensiero è sovversivo e rivoluzionario, distruttivo e terribile; il pensiero è spietato nei confronti del privilegio, delle istituzioni e delle comode abitudini; il pensiero è anarchico e senza legge, indifferente verso le autorità, incurante dell’ormai collaudata saggezza dei secoli passati.

Il pensiero guarda nella voragine dell’inferno, ma non ha paura… Il pensiero è grande, acuto e libero, la luce del mondo, e la più grande gloria dell’uomo. Se il pensiero non è bene di molti, ma soltanto privilegio di pochi, lo dobbiamo alla paura. È la paura che limita gli uomini -paura che le loro amate credenze si rivelino delle illusioni, paura che le istituzioni con cui vivono si dimostrino dannose, paura di dimostrarsi essi stessi meno degni di rispetto di quanto avessero supposto di essere”.

Ho richiamato le opinioni di personalità della cultura, un filosofo, un teologo e un economista, dilungandomi. Avrei voluto scrivere solamente qualche annotazione personale al bel pezzo di Gramellini. Poi leggendo Eco, Mancuso e Pezzani mi ha preso la mano ed ho riportato parti dei loro scritti, anche cose che avrei voluto dire io ma che nella loro prosa assume maggiore autorevolezza. Mi limito, dunque, ad alcune considerazioni maturate nell’esperienza dei miei studi che apprezzavo in quanto organizzati con riferimento al medesimo periodo storico, in parallelismo tra storia della letteratura italiana, storia della politica e dell’arte, filosofia, ciò che faceva comprendere allo studente le ragioni l’evoluzione del pensiero e dei fatti nel tempo. Del latino e del greco si è detto come strumento di percezione immediata della storia della cultura e della nostra civiltà. Se oggi noi diciamo che l’Europa affonda le sue radici nella cultura greco-romana e nel pensiero giudaico-cristiano noi vogliamo sottolineare che il pensiero greco nella elaborazione romana giunge è ancora oggi valido quale massima espressione del diritto che modella i diritti individuali e sociali che sono alla base dei valori grandi della libertà, della giustizia, della persona umana, un concetto che nasce a Roma.

Il liceo classico non ignora la matematica, la fisica e le scienze naturali che, ad esempio, io conservo come un patrimonio importante della mia personalità. Materie coltivate anche grazie alle strutture offerte dall’istituto, due aule ad anfiteatro, una per la fisica e l’altra per le scienze naturali, dotate di tutte le occorrenti apparecchiature per sperimentazioni di ottica e di acustica ed una ricchissima dotazione di minerali, animali imbalsamati e di scheletri.

Negli scritti richiamati emerge l’importanza dello studio della lingua italiana, approfondito con la lettura dei classici con le esercitazioni scritte con le quale eravamo invitati a commentare una poesia, a presentare un evento storico o un profilo letterario o filosofico, così acquisendo un uso disinvolto e completo della lingua, scritta e parlata, strumento fondamentale nelle attività professionali. Perché chiunque ambisce ad un posto di lavoro e si deve presentare per ottenerlo sarà tanto più apprezzato quanto più dimostrerà capacità di trasmettere all’interlocutore le proprie ambizioni i propri desideri in rapporto alla storia personale, di studio e professionale. E poi, nel corso dell’attività lavorativa, ognuno sarà chiamato nel tempo, ingegnere, medico o fisico a presentare una relazione, ai superiori, ai colleghi in un convegno. E sarà tanto più apprezzato quanto più la sua esposizione sarà chiara, per il modo con il quale idee e propositi vengono rappresentati.

Purtroppo l’uso della lingua italiana è notevolmente degradato. Da ultimo complici gli smartphone, gli strumenti informatici che tendono non alla sintesi ma alla rappresentazione di espressioni linguistiche con segni o poche lettere – cmq per comunque – si va perdendo il gusto dello scrivere anche perché non viene coltivato il piacere della lettura.

Né è corretto dire che il liceo classico è più duro e impegnativo per il latino e il greco. Chi ha fatto questi studi sa bene che, superata qualche iniziale difficoltà, coloro che amano partecipare a questa avventura culturale si lasciano trascinare dalla bellezza della prosa “giornalistica” di Cesare o dall’impeto forense di Cicerone, una soddisfazione che arricchisce la mente e ritorna in molti di noi dopo anni lontani dalla scuola nei momenti di riposo mentale dall’impegno professionale – l’otium che ricorda Mancuso – per riandare a questo patrimonio culturale che in altri paesi è più apprezzato che in Italia.

Termino, a questi proposito, con un ricordo. Una mia segretaria, che stava ricercando un appartamento a Perugia, invitata dall’agenzia che aveva interessato a visitare degli immobili un giorno mi raccontò che, in una di queste occasioni, si accompagnava a due studentesse (sapete che a Perugia c’è un’Università per stranieri molto frequentata), una ragazza svedese ed una tedesca le quali parlavano fra loro in latino. La mia segretaria mi ha detto di essersi sentita in imbarazzo perché, pur avendo fatto il liceo classico, avevo difficoltà ad interloquire con le giovani straniere.

Rifletterà la politica sulle parole di Gramellini, di Eco, di Mancuso e Pezzani? Per rimediare. Perché il tempo è poco. Perché alcuni degli studenti scarsamente dotati che licenzia la scuola diventeranno, a loro volta, professori, con un effetto perverso che, ovviamente non è solo dell’istruzione, anche la politica, l’amministrazione e le professioni risentono della riduzione dei programmi scolastici. Basta leggere le leggi, spesso incomprensibili, i decreti che dettano regole farraginose, le sentenze in larga misura scritte con il “copia/incolla”, pareri che non chiariscono.

Tuttavia voglio essere fiducioso nel futuro, se questo Paese consentirà alle tante energie positive di cui dispone di rinnovare gli studi, di varare leggi chiare e sobrie, come richiedeva Piero Calamandrei, sentenze limpide e pareri illuminanti.

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