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La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici come chiave di lettura di vicende contemporanee

di Andrea Landi

La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici come chiave di lettura di vicende contemporanee

(A proposito di R. Federici, Ben scavato, vecchia talpa! Dal “18 brumaio” di Marx agli eventi afghani (2021), Napoli, Editoriale Scientifica, 2021)*

1. Per prendere in considerazione questo libro e tentare di intenderne appieno il contenuto e poi il significato, credo che si debba partire da una frase collocata in esergo della parte terza, la quale ci svela da un lato la metodologia dell’autore e dall’altro i presupposti che stanno alla base delle conclusioni, a cui la sua analisi perviene:

«Non si può pensare di scrivere uno studio moderno di storia e di diritto (pubblico), se non si conosce la teoria sulla pluralità degli ordinamenti giuridici formulata da Santi Romano nel 1917»[1].

Questa frase è davvero la chiave di volta per comprendere ogni pagina di questa indagine; la quale – si badi bene – non è né vuole essere uno studio di storia del diritto, ma è piuttosto un lavoro che, avvalendosi della ricerca storica e delle riflessioni di teoria generale del diritto, offre al lettore importanti strumenti di analisi per intendere la realtà contemporanea. Direi, quindi, che si è di fronte ad un libro che guarda al diritto vigente, all’esperienza giuridica di oggi, mettendo a fuoco anche la prospettiva storica.

La frase or ora citata afferma la necessità imprescindibile di conoscere il messaggio romaniano, sia per chi voglia essere storico del diritto, sia per chi intenda ricostruire l’esperienza giuridica odierna, soprattutto – ma non solo, aggiungo io – dall’ottica del diritto pubblico.

Un messaggio – lo ricordo a me stesso – che venne formulato dal professore siciliano nella sua celebre opera L’ordinamento giuridico, pubblicata a Pisa nel 1918, con il sottotitolo Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto[2] – dopo essere apparsa a puntate negli Annali delle Università toscane fra il 1917 e 1918 – e poi ristampato, con aggiunte, nella collana I classici del diritto dall’editore Sansoni di Firenze nel 1946[3]: un «aureo libretto», che diede vita ad un amplissimo dibattito nella scienza giuridica del Novecento, per aver messo in crisi quella teoria normativistica cui i giuristi del proprio tempo erano ancora legati, prospettando per converso la nuova teoria istituzionistica del diritto[4]; la quale, detto con notevole sintetica approssimazione, portava a negare l’identificazione dell’ordinamento con le norme e a considerarlo piuttosto come una organizzazione, come un ordre[5].

L’ordinamento veniva infatti definito da Romano come «la complessa e varia organizzazione (…), i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse»[6].

Sicché egli poteva affermare che ubi societas ibi ius e, parimenti, che ubi ius, ibi societas, proprio per richiamare l’essenziale strumentalità del diritto, rispetto alla istituzione che esso va appunto ad ordinare.

2. Nell’ambito storico-giuridico, come è noto, alla lezione romaniana ha attinto con convinzione uno dei più grandi maestri del Novecento, il leccese Francesco Calasso, fra l’altro direttore di quella collana I classici del diritto, che accolse, come detto, la seconda edizione del libro di Romano.

Anni or sono Umberto Santarelli rilevò come Calasso fosse venuto a contatto con il pensiero di Romano, durante il suo insegnamento fiorentino negli anni intorno alla seconda guerra mondiale[7], quando egli aveva avuto come collega il figlio di questi, Salvatore Romano, il quale, proprio in quegli anni, andava applicando al diritto privato le riflessioni paterne sull’ordinamento giuridico, che avranno la loro versione definitiva nel suo saggio Ordinamenti giuridici privati, apparso sulla Trimestrale di Diritto pubblico del 1955.

Secondo Calasso, «una storia del diritto…se non vuol confondere i suoi compiti con quelli della sociologia, non può altrimenti essere concepita se non come storia di ordinamenti giuridici»[8], all’interno dei quali si possono distinguere le norme e i complessi normativi, da una parte, e dall’altra l’istituzione alla quale quelle norme si riferiscono, ma senza perdere di vista quel «processo circolare fra organizzazione e norma, per cui ciascun elemento presuppone l’altro e vi si converte»[9].

È evidente che Calasso applicava all’età medievale, costellata da una miriade di Comuni, Corporazioni, universitates e collegia, la teoria romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici[10], che gli consentiva di recuperare la ricchezza e la complessità del diritto medievale e moderno, con le tantissime fonti giuridiche che lo caratterizzavano, le quali si ponevano in rapporto dialettico col ius commune; un diritto che invece la storiografia ottocentesca, troppo debitrice del positivismo giuridico, aveva ricostruito, contentandosi di una semplicistica e fuorviante gerarchia delle fonti, dove lo statuto diventava il centro del sistema giuridico e il diritto comune romano-canonico, il diritto residuale al quale l’interprete ricorreva solo in caso di lacune dello statuto stesso e in assenza di consuetudini[11].

Calasso invece osservava, come è noto, che il diritto comune aveva svolto una duplice funzione, in quello che lui definisce, appunto, il sistema di diritto comune: una – tutto sommato marginale – all’interno della gerarchia delle fonti, come diritto generale, residuale e sussidiario; l’altra, al di fuori di questa gerarchia, come fatto spirituale, vale a dire come macrosistema di riferimento o, se si preferisce, come armamentario tecnico-giuridico, per i cosiddetti iura propria; un armamentario capace di fornire i principî, le figurae, la terminologia, senza i quali tali diritti particolari non potevano essere scritti, letti e applicati[12].

Come ha scritto Santarelli, «questa riflessione di Calasso – storica e teorica insieme; anzi, storiograficamente tanto feconda proprio perché teoricamente così rigorosa – fece uscire il discorso sugli statuti dalle nebbie inconcludenti in cui lo avevano cacciato tante ricerche erudite di storia locale, tutte infatuate nell’adorazione dello statuto come unica ed esclusiva fonte normativa della cosiddetta storia patria»[13].

È vero che la storia non si fa con i se, ma credo che si possa ragionevolmente ipotizzare che la nuova fondamentale ricostruzione calassiana non avrebbe avuto le caratteristiche e l’importanza per i successivi sviluppi della storiografia giuridica, che tutti le riconoscono, se non ci fosse stata a monte la conoscenza della teoria romaniana.

Prova ne è che anche quella definizione contenuta nell’operetta De verbis quibusdam legalibus, risalente alla prima metà del XII secolo ed edita da Federico Patetta già nel 1892[14], secondo la quale Populus est collectio multorum ad iure vivendum, quae nisi iure vivat non est populus, soltanto dopo la lezione romaniana poté finalmente essere letta sotto una nuova luce, cioè come conferma del rapporto fra organizzazione e norma; un rapporto che spetta allo storico del diritto ricostruire[15]: secondo questo aforisma, allora, ciò che distingue una multitudo (una collectio multorum, ossia un insieme indistinto di persone) dal populus (cioè da una istituzione, se adoperiamo la terminologia romaniana) è proprio la presenza nel secondo delle norme, che dando attuazione ai valori dell’istituzione, ordinano il vivere dei consociati.

3. Ma l’aureo libretto di Romano è importante – diceva la frase dalla quale abbiamo preso le mosse – anche «per uno studio moderno di diritto»: e, quello che abbiamo per le mani questa sera rientra proprio, lo dicevo all’inizio, nel novero degli studi sul diritto di oggi.

Mi pare che il libro presenti in forma sintetica e di agile lettura, alcuni punti di vista che l’autore aveva già preso in considerazione in altre sue opere monografiche, dove ne aveva dato una compiuta dimostrazione: in primis l’idea del partito comunista come ordinamento giuridico[16].

Le prime due parti del volume di Federici sono infatti dedicate alla rilettura del libro di Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, la cui prima edizione risale al 1852, nel quale il filosofo tedesco riflette sulle vicende dell’ascesa al potere del futuro Napoleone III, fra l’altro, per evidenziare i difetti della società borghese e le responsabilità, dirette e indirette, della borghesia in questo colpo di Stato: il titolo dell’opera, come noto, allude al più famoso 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799), quando si consumò il colpo di Stato di Napoleone Bonaparte, contro il Direttorio. Bene: Federici guarda all’analisi marxiana, per così dire, utilizzando le lenti fornite da Santi Romano, e può concludere che il partito comunista delineato da Marx ed Engels, già con il Manifesto del 1848, è un vero e proprio ordinamento giuridico, con suoi propri valori (primo fra tutti: la dittatura del proletariato) che esso tenta di imporre nella società mediante la lotta di classe.

Secondo Federici, infatti, la caratteristica e la funzione iniziale del partito comunista internazionale, conservata per lungo tempo, è stata quella di un’organizzazione (diremmo di una istituzione politica, sempre nel linguaggio di Romano) che aspirava a conquistare il potere politico al massimo livello su una popolazione di un dato territorio, sicché per il fatto di auto-organizzarsi, di dettare le proprie regole, poteva definirsi come un vero e proprio ordinamento sovrano che combatteva il nemico con tutti i mezzi. Ed aggiunge ancora Federici che se Marx ed Engels avevano elaborato questa concezione del partito, sarà soltanto con Lenin e i suoi successori che se ne avrà la sua attuazione concreta. Insomma, tra Marx e Lenin non c’è stato, a suo avviso, un semplice rapporto fra maestro e allievo, ma quello, ben diverso, fra ideatore-progettista (il disegnatore) e il costruttore vero e proprio, appunto, dell’ordinamento comunista[17].

4. E qui si passa ad un altro tema caro all’autore, quello della differenza tra rivoluzione e rivolta, da lui affrontato funditus in una brillante monografia del 2019 dal titolo Rivolte e Rivoluzioni. Gli ordinamenti giuridici dello Stato e dell’anti-Stato[18].

Secondo Federici, la cifra caratterizzante che vale a distinguere una semplice rivolta da una rivoluzione è il fatto che nella rivoluzione gli insorti mirano alla affermazione di un nuovo ordine: così è stato nella Rivoluzione francese che abbatté l’ordine cetuale d’Ancien Régime per sostituirlo con quello della borghesia dominante, così è stato in quella Russa che istaurò, appunto, il socialismo reale, abbattendo il regime zarista. Invece nelle rivolte non necessariamente si incontra questa tendenza al sovvertimento dell’ordine costituito, per affermarne uno nuovo: la ribellione può essere spontanea, determinata da un momentaneo malcontento; la rivoluzione no: ha bisogno sempre di essere programmata e magari, nota l’autore, viene precedentemente preparata da una «vecchia talpa» che in modo nascosto mina le fondamenta su cui poggia la società che si vuole abbattere.

Ebbene, anche questa tesi dell’autore, è supportata dalla teoria istituzionistica di Santi Romano: nelle rivoluzioni, Federici vede infatti due ordinamenti sovrani che si scontrano, quello preesistente e quello rivoluzionario: soltanto l’ordinamento che vincerà tale scontro continuerà ad esistere, sostituendo definitivamente l’altro. Nella ribellione, invece, il conflitto si colloca all’interno di un unico ordinamento, per ottenerne una parziale modificazione[19].

L’esame dello scontro tra ordinamenti giuridici apre la strada all’autore per alcune riflessioni suggerite da vicende contemporanee sul nodo problematico della guerra giusta, sul ruolo delle Nazioni Unite, specialmente con le missioni di peace keeping, e sulla guerra preventiva al terrorismo; riflessioni che occupano specialmente la parte quarta del libro.

Argomenti ancora di strettissima attualità per l’odierno diritto internazionale, sui quali lascio ad altri più competenti di me l’esame e la discussione.

Mi limito semplicemente a ricordare che Federici, convincentemente, ritiene – come già aveva sostenuto in un’altra sua approfondita monografia Guerra o diritto? Il diritto umanitario e i conflitti armati tra ordinamenti giuridici[20] – che quando lo scontro tra ordinamenti giuridici, raggiungendo il suo apice, determina la guerra, si verifica sempre una sconfitta del diritto stesso, dato che esso «è lo strumento alternativo alla guerra e alla rivoluzione armata»[21]. Per lui non ha nessun senso parlare, allora, d’un diritto bellico, proprio perché la guerra è la negazione del diritto: in questo caso resterà spazio soltanto per il diritto umanitario, cioè per quel diritto pensato per la tutela delle vittime incolpevoli dei conflitti.

In termini romaniani, ancora una volta, si può dire che il diritto di una organizzazione sociale (per es. dello Stato) e il diritto internazionale hanno il fine ultimo di garantire la civile convivenza – il primo, assicurando la pace interna alla organizzazione sociale, il secondo tutelando la pace tra gli Stati –; volendo entrambi i diritti evitare, come si diceva in passato, che i consociati si facciano giustizia da soli, mediante l’uso della forza (ne cives ad arma ruant).

5. È tempo di concludere.

E vorrei farlo, spendendo questi ultimi istanti, nel ribadire ancora una volta come il libro che stiamo presentando segua con acribia e senza mai allontanarsene gli itinerari romaniani, secondo l’assunto formulato dall’autore e dal quale siamo partiti.

Ritengo anch’io, come l’autore, che nessun giurista oggi possa ignorare quella lezione che chiedeva ad una scienza giuridica intrisa di formalismo – uso parole di Paolo Grossi – «di abbandonare le secche del normativismo per riscoprire la naturale ricchezza ordinamentale del diritto»[22]; una lezione offerta, però, come ha scritto Eugenio Ripepe, da «un coerente assertore del metodo giuridico che per tutta la vita volle sempre essere giurista e solo giurista, guardandosi bene dall’indulgere a discorsi da filosofo del diritto»[23].

Io credo che anche Renato Federici, con il volume di stasera, ha voluto esser giurista fino in fondo, leggendo gli accadimenti di oggi con gli strumenti che soltanto il vero giurista è in grado di padroneggiare.

Vi ringrazio.


*Si pubblica qui, omettendo i saluti di circostanza e tuttavia mantenendo il tono colloquiale, il testo del mio intervento alla presentazione del libro di Renato Federici, Ben scavato, vecchia talpa!, svoltasi a Roma, presso il Dipartimento di Economia e Diritto della Università La Sapienza il 30 gennaio 2023, con pochissimi aggiustamenti e la sola aggiunta di alcune note, contenenti gli essenziali ragguagli bibliografici.

[1] Federici, Ben scavato, vecchia talpa!, cit., p. 74, ripreso anche a p. 101.

[2] Presso l’editore Enrico Spoerri.

[3] Era il primo volume, più volte ristampato, di quella collana, che avrebbe accolto anche altri capolavori come L’Europa e il diritto romano di Paul Koschaker, verso il quale, peraltro, Calasso non risparmiò critiche pungenti.

[4] Sulla conveniente qualificazione del libro di Romano come aureo libretto, cfr. E. Ripepe, La teoria dell’ordinamento giuridico: Santi Romano, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere e arti. Il contributo italiano alla storia del pensiero. DirittoOttava Appendice, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2012, pp. 475-484; che segnala, opportunamente, come l’aggettivo istituzionistica per la teoria romaniana sia stato coniato dal giurista siciliano al fine di distinguere la propria ricostruzione dalle tante teorie istituzionalistiche. Sulla figura di Santi Romano la bibliografia è sterminata; qui mi limito a segnalare due recenti volumi, collegati al centenario del suo libro più celebre: Santi Romano. L’ordinamento giuridico (1917-2017). La fortuna della teoria romaniana dell’ordinamento dalla sua pubblicazione ai tempi nostri nelle varie aree disciplinari, a cura di M. Mazzamuto, Palermo, 24-25 Novembre 2017, Napoli, Editoriale Scientifica, 2020 e Attualità e necessità del pensiero di Santi Romano, a cura di R. Cavallo Perin e al., Pisa, 14-15 giugno 2018, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019.

[5] In questo senso cfr. U. Santarelli, Auctor iuris homo. Introduzione allo studio dell’esperienza giuridica basso-medioevale, Torino, Giappichelli, 1997, p. 23.

[6] S. Romano, L’ordinamento giuridico2, Firenze, Sansoni, 1946, p. 15.

[7] U. Santarelli, Ius commune e Iura propria. Strumenti teorici per l’analisi di un sistema, adesso in Id., Ubi societas ibi ius. Scritti di storia del diritto, Introduzione di P. Grossi, a cura di A. Landi, II, Torino, Giappichelli, 2010, pp. 519-520.

[8] F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Milano, Giuffrè, 1953 (la seconda edizione si avrà nel 1965, con varie ristampe successive), p. 36.

[9] Calasso, Gli ordinamenti giuridici, cit., p. 29.

[10] Sebbene questa meritoria ricostruzione non andasse esente da difetti, anche vistosi, come ha messo in evidenza P. Grossi, L’ordine giuridico medievale11, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 32-35.

[11] Cfr. U. Santarelli, Lo statuto ‘redivivo’, ora in Id., Ubi societas ibi ius. Scritti, cit., pp. 659-666.

[12] Per una panoramica su queste vicende, cfr. M. Bellomo, L’Europa del diritto comune10, Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 2014, pp. 163-169; sicché, in definitiva, «il ius commune fu un sistema di clausole normative, di produzione non-legislativa e di vigore territorialmente indeterminato, variabile nei suoi contenuti e destinato ad essere applicato in mancanza di norme appartenenti agli iura propria dei singoli territori» (così U. Santarelli, Il ius commune, frutto maturo dell’esperienza giuridica medievale, adesso in Id., Ubi societas ibi ius. Scritti, cit., p. 917).

[13] Santarelli, Ius commune e Iura propria, cit., p. 518.

[14] Bibliotheca iuridica Medii Aevii, II, Scripta anecdota Glossatorum, Bononiae, In aedibus Petri Virano olim fratrum Treves, 1892, p. 131, n. 39. Utili spunti di riflessione, con riferimento anche alle elaborazioni della classicità rispetto al termine populus, in M. Caravale, v. Popolo (Antichità e Medioevo), in Enciclopedia delle scienze sociali, VI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1996,  p. 691.

[15] Cfr. Calasso, Gli ordinamenti giuridici, cit., p. 273.

[16] Federici, Ben scavato, vecchia talpa!, cit., pp. 66-70.

[17] Federici, Ben scavato, vecchia talpa!, cit., p. 91.

[18] R. Federici, Rivolte e Rivoluzioni. Gli ordinamenti giuridici dello Stato e dell’anti-Stato. Sulla differenza fra strutture e sovrastrutture, Napoli, Editoriale Scientifica, 2019.

[19] Federici, Ben scavato, vecchia talpa!, cit., pp. 85-86, nt. 185.

[20] R. Federici, Guerra o diritto? Il diritto umanitario e i conflitti armati tra ordinamenti giuridici3, Napoli, Editoriale Scientifica, 2013 (la prima edizione è del 2009).

[21] Federici, Ben scavato, vecchia talpa!, cit., p. 80.

[22] P. Grossi, Introduzione, in Santarelli, Ubi societas ibi ius, cit., p. XIII.

[23] Ripepe, La teoria dell’ordinamento giuridico, cit., p. 484.

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