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L’8 settembre 1943. Nel momento più drammatico, il Re resta fedele al suo ruolo

di Salvatore Sfrecola

L’8 settembre 1943 segna l’inizio di uno dei periodi più drammatici e controversi nella tragica storia di quegli anni, in un Paese sconvolto da una guerra ormai perduta che gli italiani non avevano avuto alcun interesse a combattere, perché contraria agli interessi nazionali ed alle relazioni internazionali che avevano caratterizzato la storia del Risorgimento. Una guerra voluta da Mussolini in un’ottica di errata valutazione della possibile evoluzione di un conflitto che era logico attendersi sarebbe presto diventato “mondiale”. Con trascuratezza delle potenzialità militari di Francia e Regno Unito e, soprattutto, del prevedibile apporto degli Stati Uniti d’America, grande potenza industriale, in una guerra che, più della prima, sarebbe stata combattuta con un rilevante e crescente apporto di mezzi di tecnologia sempre più elevata. Un errore politico che si rivelò ben presto foriero di tragiche conseguenze sui fronti francese, somalo-abissino e russo.

A quella guerra vollero porre fine gli stessi massimi esponenti del regime che ne decretarono la fine il 25 luglio, con un voto del Gran Consiglio del Fascismo inteso a ripristinare la “legalità costituzionale”. Un evento preparato dal Re, concordato con Dino Grandi, per il tramite del ministro della Real Casa, Pietro d’Acquarone. Lo spiega Enzo Storoni (La congiura del Quirinale) che nel suo Memoriale aggiunge. “senza tema di smentite che artefice unico del colpo di stato sia stata la monarchia”. Eppure, è sembrata a molti cosa di poco conto aver chiuso la ventennale “parentesi” fascista, per dirla con Benedetto Croce, nel momento più tragico della sua evoluzione.

Meno di due mesi dopo, con l’8 settembre inizia una feroce guerra civile che la vulgata fascista addebita al “tradimento” e alla “fuga” del Re. L’uno e l’altra frutto di una narrazione faziosa, che trascura i fatti ed il contesto nel quale si sono svolti. Il “tradimento” è, per i fascisti “duri e puri”, la scelta del Sovrano di abbandonare l’alleato tedesco e di stipulare il successivo armistizio con gli anglo-americani, stipulato con l’evidente intento di evitare ulteriori vittime civili e distruzioni. La “fuga” qualifica la decisione del Re e del Governo, nella notte fra l’8 e il 9, di lasciare la Capitale verso territori non occupati dai tedeschi, al fine di “salvaguardare, in certo modo, la continuità istituzionale del Paese e di garantire, di fronte agli Alleati, la validità dell’armistizio concluso,” (A. Ciarrapico, I quesiti irrisolti)È la ragione autentica per la quale “il re e il governo italiano si rifugiano a Brindisi” (P. Milza, Storia d’Italia).

D’altra parte, Vittorio Emanuele III non poteva cadere in mano ai tedeschi. Anche i sovrani di Belgio, Olanda e Norvegia, a seguito dell’occupazione tedesca, avevano abbandonato la capitale e si erano rifugiati all’estero per non diventare ostaggi nelle mani di Hitler. Nessuno ha detto di loro che sono fuggiti, anzi sono stati lodati per aver continuato da Londra la guerra antinazista.

Per i fascisti, asserragliati nella sedicente Repubblica Sociale Italiana (R.S.I), fedeli all’alleato tedesco per senso dell’onore, trascurando che Mussolini alla vigilia del 25 luglio aveva incontrato Hitler a Feltre con il proposito di chiedergli una pace separata, il Re era fuggito. Li seguiranno in questa narrazione gli antifascisti dell’ultima ora, soprattutto nel corso della campagna referendaria del 1946. 

Per il gusto del politically correct hanno presto cominciato a scrivere di “fuga” giornalisti e storici animati da spirito di parte, trascurando i problemi che i protagonisti all’epoca avevano dovuto affrontare, le tensioni morali per scelte difficili nelle condizioni date, soprattutto quel Re che avrebbe avuto di lì a poco (il 22 settembre) la figlia prediletta Mafalda, catturata dalla Gestapo per ordine di Hitler e internata nel campo di concentramento di Buchenwald dove sarebbe morta, a seguito di atroci sofferenze, il 28 agosto 1944.

Per i teorici della fuga, il Re avrebbe dovuto difendere Roma fino all’ultimo uomo. Sarebbe stato un tragico errore. Militare, in primo luogo, in quanto la città era tecnicamente indifendibile. Sarebbe stata bombardata con l’effetto di subire immense distruzioni, soprattutto dei suoi monumenti, espressione di una storia lunga quasi tre millenni. Sarebbero andate perdute le vestigia più importanti della nostra civiltà, della nostra storia politica e religiosa. Roma è la sede del Pontefice della Chiesa Universale e sappiamo che Hitler non amava Pio XII, che aveva pensato di occupare la Città del Vaticano e di rapirlo. Avrebbe, dunque, molto volentieri bombardato l’intera città. E gli anglo americani avrebbero risposto bombardando le posizioni tedesche, senza guardare troppo per il sottile ai monumenti dell’antica civiltà, come faranno a Cassino. Cosa avrebbe detto la storia se Vittorio Emanuele III, il “Re Soldato”, certo non timoroso della sua vita, avesse provocato la morte di centinaia di migliaia di romani e di soldati lasciando ai posteri un cumulo di macerie? Qualcuno, forse, avrebbe lodato il gesto “eroico”, i più lo avrebbero condannato per quei morti e per quelle distruzioni.

Eppure, uno studioso delle istituzioni, come Giuseppe Maranini, ha scritto che quella di Vittorio Emanuele III fu una “fuga”, “vilmente operata abbandonando le forze armate, senza ordini, allo sbaraglio” (Storia del potere in Italia, 1848 – 1967). Il Re fugge anche per Giorgio Bocca (Storia d’Italia nella guerra fascista, 1940 – 1943) che, peraltro, nella stessa pagina, dà conto della confusione che regnava nel comando militare della Capitale e diffondeva ottimismo. “Maestà, buone notizie, – dice al Sovrano il Generale Carboni– all’ambasciata tedesca c’è il panico, un consigliere mi ha telefonato implorandomi di proteggerlo”. E più tardi “Maestà, tutto va per il meglio, i tedeschi si ritirano, sono pronto ad inseguirli”.

Quanto all’armistizio, centrale nell’accusa di tradimento e di fuga, fu “firmato in gran segreto”, ha scritto chi ignora che segreto è sempre stato ogni accordo connesso ad una guerra. Nel caso del documento sottoscritto il 3 settembre era evidente la necessità della segretezza, considerato che già all’indomani del 25 luglio Hitler aveva immaginato che l’Italia avrebbe abbandonato l’alleanza. Aveva, di conseguenza, fatto entrare in Italia numerose divisioni bene armate.

Firmato l’armistizio, gli angloamericani ne danno l’annuncio prima del previsto, l’8 settembre, appunto, spiazzando il Governo ed i reparti militari che non sarebbe stato possibile informare senza che la “notizia” fosse intercettata dai tedeschi. Immaginate per un momento un dispaccio che fornisce indicazioni operative ai nostri reparti. Lo avrebbero conosciuto i tedeschi, magari complici i fascisti presenti in tutti i gangli dell’amministrazione militare, appena battuto a macchina, prima che fosse firmato e spedito. Tutti, pertanto, ne vengono a sapere dal messaggio radiofonico del’8 sera quando, nel comunicare che il governo italiano lo aveva stipulato, il Maresciallo Badoglio precisava che “conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Non è, questo, forse un ordine non equivoco? Per Roberto Martucci sarebbe stato necessario chiarire che “è prevista una violenta reazione tedesca” (Storia costituzionale italiana, Dallo Statuto Albertino alla Repubblica). Ma cosa avrebbe aggiunto una tale indicazione? Stupisce anche che sia stata formulata.

Per Alessandro Meluzzi, al Re “han fatto pagare gli errori di un Paese”. Antichi e più recenti. Quelli dei popolari di Luigi Sturzo, dei liberali di Giovanni Giolitti, dei socialisti di Filippo Turati che, nel 1922, invitati dal Re a formare un Governo che affrontasse la crisi del dopoguerra, non vollero assumersi le gravi difficoltà del momento. Alcuni votarono la fiducia al Governo di Mussolini. E quando cominciò a delinearsi la soppressione delle libertà statutarie non vennero i segnali che il Re attendeva. Lo hanno lasciato solo. Anche dopo il 25 luglio.

(articolo destinato ad un prossimo fascicolo di OPINIONI NUOVE)

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