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25 luglio 1943, quando il Re ha salvato l’Italia

di Salvatore Sfrecola

25 luglio 1943, una data drammatica nella storia d’Italia. Quel giorno si conclude la “parentesi” del Fascismo, per dirla con Benedetto Croce. Di lì a poco, l’8 settembre, inizia la guerra di liberazione dall’occupazione tedesca che al Nord, a seguito della costituzione della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), assumerà i connotati di una sanguinosa guerra civile.

È una calda serata dell’estate romana, quel sabato 24 luglio, quando a Palazzo Venezia convengono i più importanti gerarchi del regime, convocati per partecipare al Gran Consiglio del Fascismo, organo costituzionale del Regno, che avrebbe discusso e votato un ordine del giorno del Presidente della Camera, Dino Grandi, concordato nei giorni precedenti con alcuni gerarchi in una riunione nella sede del partito, che avrebbe decretato la fine del regime che aveva governato l’Italia dal 1922. La discussione è animata ed è ormai il 25, quando, alle ore 2,30, messo ai voti, l’ordine del giorno Grandi viene approvato da 19 dei presenti, tra gli altri i superstiti “quadrumviri” della Marcia su Roma, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi, altri elementi di spicco del regime, oltre a Dino Grandi e Giuseppe Bottai, l’economista Alberto de’ Stefani, il giurista Alfredo de Marsico, il sindacalista Edmondo Rossoni, il nazionalista Luigi Federzoni. 7 furono i contrari, 1 si astenne.

Il passaggio fondamentale del testo, premesso un omaggio “agli eroici combattenti di ogni arma …”esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra… dichiara che è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e la salvezza della Patria assumere l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno, quale suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.

Quel “ripristino di tutte le funzioni statali” è, senza mezzi termini, la conclusione della stagione delle leggi derogatorie dello Statuto Albertino con le quali il Fascismo, approfittando della natura “flessibile” della Carta costituzionale, aveva concentrato tutti i poteri nel partito e nel Duce e limitato l’autorità del Sovrano, a cominciare dal Comando “effettivo” delle Forze Armate, per intervenire anche sulla successione al Trono.

Si è discusso molto sull’o.d.g. Grandi, su come sia nata l’iniziativa, sulla formulazione del testo, sulla discussione che ha preceduto il voto, con l’intervento dei massimi esponenti del regime e dello stesso Benito Mussolini che aveva presieduto, in tono ritenuto da tutti dimesso, quasi rassegnato, la riunione dopo aver tentato di rinviarla. Per alcuni il Duce era stanco e sfiduciato, forse desiderava uscire di scena. Si sa che l’ordine del giorno era stato preparato d’intesa con altri dirigenti fascisti come Luigi Federzoni e Giuseppe Bottai, che era stato portato all’attenzione di Mussolini due giorni prima dal suo stesso estensore.

Del dibattito in Consiglio esistono varie versioni e interpretazioni, che hanno richiamato l’attenzione degli storici, impegnati a ricercare la reale volontà dei votanti sulla base di quanto emerge da memoriali e diari, alcuni messi a punto nei giorni successivi dagli stessi protagonisti della seduta, documenti sospetti di essere stati “aggiustati” alla luce degli eventi, la destituzione di Mussolini e la nascita del Governo del Maresciallo Pietro Badoglio, del quale alle 22,45 viene data la notizia ufficiale, tra il tripudio delle folle, a Roma, e in altre città, come attestano le immagini dei giornali e i filmati dell’epoca, tra sventolio di bandiere ed esibizione delle foto del Re. In quelle ore pochi si ricordano di essere stati fascisti, i più tolgono immediatamente dalla giacca il distintivo del Partito Nazionale Fascista (P.N.F.), la “cimice”, che, sostenevano, avevano indossato solamente perché obbligati. Domenico Giglio, storico Presidente del romano Circolo “Rex” all’epoca era un ragazzo. Uscito di casa con i suoi genitori per raggiungere l’abitazione di Badoglio racconta di aver calpestato nel buio numerose “cimici” gettate dalle finestre dagli improvvisati antifascisti.

Essenziale è comprendere come è nata la decisione di portare all’attenzione del Gran Consiglio la proposta di restituire al Re i poteri statutari. Una iniziativa che, ormai è certo, partita da lontano, era divenuta sempre più concreta a mano a mano che la condotta della guerra assumeva connotazioni sempre più drammatiche. E cresceva nell’opinione di molti esponenti del regime la consapevolezza dell’errore di valutazione che aveva indotto Mussolini ad entrare in guerra a fianco della Germania, senza riflettere sulla possibile evoluzione di un conflitto che era logico attendersi sarebbe presto diventato “mondiale”. Con trascuratezza delle potenzialità militari di Francia e Regno Unito, che disponevano di eserciti che aggregavano ingenti truppe coloniali e, soprattutto, del prevedibile apporto degli Stati Uniti d’America, grande potenza industriale, in una guerra che, più della prima, sarebbe stata combattuta con un rilevante e crescente apporto di mezzi di tecnologia sempre più elevata. E senza tener conto delle condizioni delle nostre Forze Armate e degli armamenti, che risentivano del pesante impegno sostenuto nelle guerre d’Etiopia e di Spagna. Sull’uno e l’altro fronte l’esercito aveva dimostrato gravissimi limiti, organizzativi e di adeguatezza rispetto alle nuove tecniche di combattimento che impiegavano armi individuali molto più moderne di quelle di cui disponevamo. Per non dire dei mezzi di trasporto e di quelli da combattimento, come le artiglierie ed i carri armati che si dimostreranno inadeguati ai combattimenti in Etiopia e in Africa settentrionale. Inoltre, era stato immediatamente evidente, per effetto delle difficoltà di approvvigionare via mare le nostre truppe in Africa Orientale, che l’armata al comando del Viceré Amedeo di Savoia, Duca d’Aosta, nonostante l’eroico comportamento dei nostri soldati aveva dovuto arrendersi il 19 maggio 1941 all’esercito inglese. Poco dopo avremmo perduto la Libia, mentre la Grecia sarebbe stata conquistata a prezzo di gravissime perdite in uomini e mezzi solamente nell’aprile 1941 grazie all’intervento determinante di truppe tedesche provenienti dalla Jugoslavia. A sua volta la campagna del Corpo di spedizione in Russia, tra il 1941 e il 1943 fu una tragedia per morti, feriti e prigionieri detenuti per anni nei campi sovietici.

Se si aggiunge che importanti città italiane sono state pesantemente bombardate, con migliaia di vittime civili e distruzione di infrastrutture viarie, ferroviarie, portuali e aeroportuali, si comprende facilmente il diffuso malcontento dell’opinione pubblica e il desiderio di chiudere l’esperienza con una pace separata. Lo stesso Mussolini aveva avuto l’intenzione di parlarne con Hitler, incontrato a Feltre il 19 luglio, ma sembra che non abbia potuto affrontare l’argomento.

Recenti studi e testimonianze dicono che, in effetti, in ambienti del Fascismo e delle Forze Armate l’intenzione di raggiungere una pace separata si era andata formando fin dal primo anno di guerra (1940) per effetto della diffusa consapevolezza della impossibilità di partecipare ad un conflitto al quale l’Italia non aveva nessun interesse per le condizioni delle truppe, cui si è già fatto cenno, ma soprattutto per ragioni che oggi definiremmo geopolitiche, considerata la nostra collocazione geografica nel Mediterraneo che già nella Prima Guerra Mondiale aveva sconsigliato un confronto con potenze che su quel mare disponevano di una rilevante capacità operativa che ci avrebbe impedito, come accennato, di rifornire le armate presenti in Libia ed in Africa orientale.

Il malcontento, dunque, cresceva e alimentava la volontà di individuare un modo per avviare trattative con gli anglo-americani, naturalmente previa sostituzione della guida delle Forze Armate e del Governo. È questa l’intenzione del Re Vittorio Emanuele III, che la decisione di entrare in guerra aveva subìto e che aveva costantemente rimarcato la propria diffidenza nei confronti della conduzione delle operazioni militari e specificamente dell’“alleato” tedesco, come si desume dai diari degli aiutanti di campo del Re e da passi significativi dei Diari di Galeazzo Ciano, Ministro degli esteri e genero del Duce. Anche lui, infatti, diffidava dei tedeschi. Analoghi sentimenti, antifascisti ed antitedeschi, erano diffusi nella famiglia reale. Contrari alla guerra erano notoriamente il Principe ereditario, Umberto, e la consorte, Maria José, principessa belga e, pertanto, consapevole di quanto accadeva nel paese d’origine occupato dalla Wermacht. La principessa, in particolare, aveva contatti con esponenti antifascisti, da Benedetto Croce a Guido Gonella, e con il Sostituto della Segreteria di Stato della Santa Sede, Monsignor Giovanbattista Montini, il futuro Papa Paolo VI.

Il Re, per parte sua, tramite il Ministro della Real Casa, il Duca d’Acquarone manteneva discreti rapporti con alcuni fascisti fedeli alla monarchia, come Dino Grandi, di recente insignito del Collare della Santissima Annunziata, personalità di spicco del regime, già Ministro della Giustizia, Ambasciatore a Londra per molti anni, al momento Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. E con Luigi Federzoni, storico leader del movimento nazionalista. Il Sovrano, inoltre, intratteneva relazioni con vari esponenti della politica prefascista. Con molta cautela, immaginando di essere spiato in vario modo da persone appartenenti agli apparati di sicurezza dello Stato che amavano ingraziarsi il Duce con rapporti nei quali si tendeva ad enfatizzare il dissenso che emergeva nella Famiglia Reale e negli ambienti a lei vicini.

È certo, dunque, che il 25 luglio è figlio dell’iniziativa del Re che da tempo “era entrato nell’ordine di idee che, per salvare il paese, avrebbe dovuto sbarazzarsi di Mussolini e, forse, del fascismo stesso. Tuttavia, ligio com’era al formalismo giuridico, aveva bisogno di un “pretesto” per operare: un pretesto che gli sarebbe stato, appunto e casualmente, offerto dalla riunione del Gran Consiglio del 25 luglio 1943”, come scrive Francesco Perfetti, storico dell’età contemporanea (Opinioni Nuove, agosto 2023). “In realtà, continua, il Re aveva già pensato di intervenire prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Il 14 marzo 1940 aveva fatto avvicinare Ciano da Acquarone per informarlo che “da un momento all’altro” avrebbe potuto presentarsi “la necessità di intervenire per dare una diversa piega alle cose”, cosa che egli era disposto a fare “anche con la più netta energia”. Pochi giorni dopo, il 28 marzo, Ciano aveva avuto un lungo colloquio con il Principe Umberto che non aveva celato “la sua preoccupazione per l’orientamento sempre più germanofilo della nostra politica”. Un evento, dunque, preparato e concordato con Dino Grandi, come spiega bene Enzo Storoni (La congiura del Quirinale) che nel suo Memoriale aggiunge. “senza tema di smentite che artefice unico del colpo di stato sia stata la monarchia”.

Aggiungo un ricordo personale. Ero un ragazzo quando l’on. Cesare Degli Occhi, Avvocato e parlamentare cattolico, antifascista, dirigente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), venendo a parlare del 25 luglio mi disse: “sono stato ostile al Fascismo fin dai primi anni ’20 ma a farlo cadere fu il Re, solamente il Re”. Ricordo una sua battuta: “io mi facevo la barba mentre il Re congedava Mussolini”.

Secondo Marcello Veneziani, che ne ha scritto su La Verità, ci fu “un antefatto che di solito non viene collegato alla caduta del regime fascista”, il pesante bombardamento di Roma, avvenuto il 19 luglio i cui effetti Mussolini potè valutare rientrando da Feltre. Tremila furono i morti nella popolazione, di cui la metà nel solo quartiere di San Lorenzo, migliaia i feriti, case distrutte, terrore. “Cinquemila bombe sganciate sulla capitale da cinquecento bombardieri”. Secondo Veneziani “si sottovaluta l’impatto emotivo, la paura e la percezione di vulnerabilità che il bombardamento del 19 luglio ha procurato nell’establishment, tra le gerarchie militari e sulla stessa Corona. Tutti, dal Re ai capi e capataz avvertono di essere ormai in balia degli eventi, esposti alla tragedia, ormai insicuri fin dentro casa, nei palazzi del potere romano…”. È lì che si rinvengono i prodromi del “fatidico 25 luglio, spartiacque nella storia del novecento italiano e punto di svolta nella seconda guerra mondiale”. Nonché “paradigma di tutte le cadute dei capi, di tutti i conflitti tra poteri e di tutti i voltafaccia e i tradimenti, i passaggi di campo”.

Abbiamo visto che la genesi del 25 luglio va ricercata, in realtà, molto prima, ma è certo che l’immagine di Roma violata dalle fortezze volanti alleate convinse più d’uno e fece comprendere che si era alla fine. Forse lo stesso Mussolini sentiva che l’orologio del destino aveva consumato il suo tempo sicché accettò di discutere e votare l’ordine del giorno che platealmente lo privava del comando delle Forze Armate, pronto a rimettere il suo mandato nelle mani del Re che, disponendo il suo fermo, lo metteva al riparo dalla reazione degli antifascisti, come emerge dalla lettera al Maresciallo Badoglio del 26 luglio nella quale l’ormai ex Duce lo ringrazia “per l’attenzione” riservata alla sua persona, si dice “contento della decisione presa di continuare la guerra” aggiungendo voti “che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il re, del quale durante ventuno anni sono stato leale servitore e tale rimango”. Ed indica il luogo dove si sarebbe ritirato volentieri, la Rocca delle Caminate, un castello in comune di Meldola a poca distanza da Predappio, residenza estiva del capo del Fascismo. Certo in quel momento non pensava di costituire la Repubblica Sociale, una decisione le cui motivazioni affaticano da allora gli storici.

Di lì a poco, l’8 settembre 1943, con l’annuncio dell’armistizio stipulato dal Governo italiano con gli anglo-americani, avrà inizio uno dei periodi più drammatici e controversi di quegli anni. In un Paese sconvolto da una guerra ormai perduta, avranno inizio operazioni militari per la liberazione dal tedesco, divenuto nemico e invasore, ed una guerra civile sanguinosa, a tratti crudele anche se illuminata da episodi di straordinario eroismo.

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