giovedì, Maggio 2, 2024
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Buon compleanno Italia! *

di Salvatore Sfrecola

Gentili Signore, Cari Signori, Amici dell’Unione Monarchica Italiana e del Centro Studi Storici, Giuridici e Politici “Vittorio Emanuele Orlando”.

Qualche breve considerazione sull’evento odierno, occasione per noi gioiosa nella quale c’incontriamo per augurare all’Italia, la Patria nostra, ed a noi tutti buon compleanno. Perché il 17 marzo 1861, data della costituzione dello Stato nazionale, si è verificato un evento straordinario dopo che “da secoli/ calpesti, derisi,/ perché… divisi”, come sentiamo dall’Inno di Mameli, la Canzone degli Italiani, i nostri maggiori si sono riconosciuti in un regno nella prospettiva che divenisse “un grande Stato”, secondo gli auspici del Conte di Cavour[1].

È il “miracolo del Risorgimento, come titola un bel libro Domenico Fisichella. Il Risorgimento, per l’Italia l’“unico tradizionale mastice – scrive Indro Montanelli – della sua unità”[2], quando da ogni parte della penisola uomini di pensiero e d’azione, superando ogni distinzione ideale, liberali e conservatori, clericali e laici, monarchici e repubblicani, hanno ritenuto prioritario, rispetto alle tradizionali divisioni di interessi personali e locali, quello che univa, nell’obiettivo di dare all’Italia un assetto costituzionale liberale nel solco dello Statuto Albertino.

Dal 2012[3], il 17 di marzo è la “Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”, ma non è una giornata festiva come è consuetudine ovunque, con il concorso di autorità e popolo, laddove si rivive con orgoglio un pezzo di storia nazionale. Spesso con un contorno di discorsi, spettacoli e manifestazioni musicali e parate militari. Insomma, si fa festa, e dalla capitale si replica nelle città e nei paesi. Per ricordare la ricostituzione o la riunificazione dello stato, la Dichiarazione d’indipendenza o la fine dell’occupazione straniera.

In Italia, almeno dal 1946, partiti politici espressione di una cultura che non ha animato le speranze del Risorgimento nazionale tengono la sordina su uomini e fatti che portarono all’unificazione nazionale in un percorso che sarebbe stato completato solo il 4 novembre 1918 con la liberazione di Trento e Trieste dal giogo austriaco.

L’unificazione politica, dobbiamo riconoscerlo, non si è realizzata ovunque in modo omogeneo dal punto di vista economico e sociale. Perché se “Cristo si è fermato ad Eboli”, come titola un famoso libro di Carlo Levi, l’alta velocità non è andata molto più in là e l’economia delle regioni meridionali che avrebbe dovuto, nella visione di Camillo di Cavour, costituire uno degli elementi portanti dello sviluppo economico del nuovo stato non è divenuta ovunque fonte di benessere.

Evidentemente, ha scritto Emilio Gentile alla vigilia dei 150 dell’unità, “non c’è stata la progressiva identificazione degli italiani con lo Stato nazionale nato dal Risorgimento. Anzi, al contrario, molti oggi ne vorrebbero celebrare il funerale, cosa che non accadeva mezzo secolo fa e nemmeno cento anni fa. Ciò che distingue l’Italia dal resto del mondo occidentale è il fatto che altrove nessun partito al governo mette in discussione la nascita dello Stato nazionale, nemmeno laddove lo Stato è una federazione di nazioni o di nazionalità diverse come negli Stati Uniti e la Svizzera. Inoltre, l’Italia è l’unico paese che tutte le volte che ha celebrato l’anniversario della propria unificazione è andato incontro ad una discordia radicale, che nel corso dei decenni ha progressivamente aggravato il distacco dei cittadini dall’origine dello Stato”[4].

È mancato il ruolo unificante della Monarchia, come accade ovunque in Europa, dal Regno Unito a quelli di Spagna e del Belgio dove le tensioni localistiche sono temperate dal ruolo del Sovrano. E negli altri regni, esempi di democrazia e giustizia sociale.

C’incontriamo, dunque, di anno in anno anche per fare il punto sul senso dell’unità nazionale nel quale continuiamo fermamente a credere, nonostante tutto, nonostante ogni giorno in tanti s’impegnino a limitare il senso della sua storia.

163 anni di uno Stato che incarna una Nazione immaginata nel corso dei secoli da straordinari uomini di pensiero. Il parterre dei “Padri della Patria”, infatti, è lungo e prezioso. Inizia con “Padre Dante”, come affettuosamente lo chiamiamo, Padre “della lingua italiana”, perché nell’evocare il nome d’Italia, il “bel Paese dove il sì sona”[5], esprime certamente una visione nuova, dell’Italia “come spazio della lingua letteraria… che arricchisce da allora in poi l’immagine dell’Italia geografica”[6]. Dante attualissimo, perché l’Italia che per lui è parte della monarchia universale, con una posizione preminente nel Sacro Romano Impero[7]. E fin da allora Roma ne è la capitale naturale[8]. Dirà il Conte di Cavour, quasi cinquecento anni dopo, parlando alla Camera il 25 marzo 1861, “senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire”[9]. Roma, che Dante venera “come un’Idea, una patria morale”, erede della civiltà latina, della Roma imperiale, rinverdita dall’insegnamento di quella religione onde “Cristo è romano”. Qui sono le radici dell’Unione Europea della quale oggi l’Italia è membro autorevole.

In questo senso Dante è “l’apostolo e il profeta dell’Italia che verrà … il vero fondatore d’Italia”[10]. L’antesignano del Risorgimento nell’aspettativa di una Patria morale, lontana dalla realtà politica che ai suoi tempi, e per secoli, solo le menti eccelse potranno concepire. Non i governanti di regni, repubbliche e minuscoli principati, miopi e miseri, incapaci di guardare oltre i ristretti confini del territorio, titolari di un potere mantenuto spesso con l’ausilio di eserciti stranieri, spagnoli, francesi, austriaci chiamati per combattere un altro principe in una sfrenata cupidigia di vassallaggio. In un contesto di rissosità permanente che ricordiamo nella impietosa fotografia dell’Inno di Mameli: “calpesti/derisi, perché divisi”.

Parole che dovrebbero far riflettere anche oggi, mentre si immagina una autonomia differenziata che va al di là dell’aspetto amministrativo e finanziario delle regioni per comprendere ben trentadue materie affidate ad improbabili nazionalismi locali, compresa la scuola, che avrebbe il compito di unire e non di dividere.

Un insulto alla storia d’Italia, al sacrificio di generazioni di italiani che la vollero unita dalle Alpi al Lilibeo, all’impegno di quanti, nel corso di quasi un secolo, a partire da quel magico 1848, nel sussulto della richiesta delle libertà politiche nell’Europa nata dalla restaurazione anti bonapartista, provenienti dalle città e dai borghi più distanti, hanno fatto la storia politica e culturale del nostro Paese. 

In quel tempo e successivamente gli italiani hanno trovato in prima fila i Sovrani della più antica Dinastia d’Europa, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele II, che non hanno esitato a rischiare il trono sfidando il più grande impero dell’epoca che disponeva del più potente degli eserciti, puntello dei regnanti illiberali, al comando del quale stava un mito della storia militare austriaca, il Feldmaresciallo Josef Radetzky, vincitore di Napoleone a Lipsia nella battaglia delle Nazioni che tra il 16 e il 19 ottobre 1813 si era conclusa con la sconfitta dell’Imperatore dei francesi.

Un azzardo quello del Re Carlo Alberto, ostinatamente raccolto dal giovane Vittorio Emanuele, eppure sottovalutato, ritenuto un desiderio di espansione territoriale. Quel Re che il 4 marzo aveva concesso lo Statuto delle libertà che avrebbe mantenuto contro ogni pressione, invece accolta da sovrani pusillanimi, manifesta una scelta per l’Italia, confermata il 23 marzo 1848 quando all’esercito sardo piemontese venne affidato il tricolore con al centro lo stemma della Casata di Savoia.

Da allora sono quelli i colori nella Patria che vediamo nei cieli d’Italia nella scia delle frecce tricolori, sullo sfondo dei mille campanili, delle cattedrali, dei castelli e delle aree archeologiche che ci inorgogliscono per una storia che non ha di eguali, dei monti, dei fiumi e dei mari per cui, almeno da Dante e Petrarca, questo è “il bel Paese”.

Quelle scie nei cieli blu con i colori della nostra bandiera hanno entusiasmato ovunque tutti, grandi e piccini, e gli applausi sono stati fragorosi, come se da lassù i nostri piloti fossero in condizione di sentirli.

Credo si possa dire, senza tema di smentite, che dietro quegli applausi, quelle grida di gioia dirette ai nostri piloti ci sia altro, perché la bandiera “dai tre colori” che, come nella canzone dei nostri nonni, “è sempre stata la più bella”, è, nonostante tutto, nei cuori degli italiani. 

Tuttavia, “le democrazie – scrive Roger Scruton [11]– devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale, fedeltà che si suppone venga condivisa da governo e opposizione, da tutti i partiti politici e dall’elettorato nella sua interezza”. Ed aggiunge: “dovunque l’esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire. Infatti, in mancanza di fedeltà nazionale, l’opposizione diventa una minaccia per il governo, e il disaccordo politico non permette di creare un terreno comune”.

E nella prefazione al volume, Francesco Perfetti ricorda che a definire l’essenza di una nazione è “una comunanza di ideali, interessi, di affetti, di ricordi, di speranze: questo insieme di fattori fa sì che gli uomini sentano nel proprio cuore di appartenere a uno stesso popolo. Siamo qui già in presenza del momento identificativo tra il concetto di patria e il concetto di nazione”.

Sono, tutto sommato, concetti semplici, più diffusi di quanto si creda, a volte più nelle persone modeste, con scarsa cultura, che non vanno alla ricerca di elaborazioni ideologiche, ma sentono istintivamente nei monumenti che arricchiscono anche i più piccoli borghi d’Italia un pezzo della storia, della tradizione che li lega a quella terra ed a quanti prima di loro l’hanno abitata. Eppure, questo sentimento, diffuso, a volte rimane nelle menti e nei cuori dei singoli e stenta a diventare parte di una intera popolazione perché manca nella autorità pubblica la consapevolezza della continuità della storia pur nel mutare delle condizioni politiche.

Un esempio può far comprendere quel che intendo. Quando è stata ricordata la conclusione della Prima Guerra Mondiale, il Presidente francese Macron ha riunito a Parigi oltre 80 capi di Stato, ben oltre i partecipanti alla guerra, per esaltare il ruolo avuto dalla Francia in quella occasione. Più o meno in contemporanea le autorità italiane hanno ricordato quasi in sordina quell’evento, che per noi ha avuto un significato di gran lunga maggiore di quello che poteva esaltare il presidente francese. In primo luogo, perché il 4 novembre 1918 ha avuto conclusione, con l’annessione di Trento e Trieste, il processo unitario iniziato nel Risorgimento e poi perché obiettivamente l’esito positivo della guerra è stato conseguenza del sacrificio dell’esercito italiano che ha consumato, giorno dopo giorno, le armate austriache e tedesche. Eppure, nella cerimonia, localizzata a Trieste, con intervento del Presidente della Repubblica non si è ricordato il Re Vittorio Emanuele III costantemente presente al fronte, soldato tra i soldati. E nelle riproposizioni del “Bollettino della Vittoria”, che sentiamo dai social, non di rado è omesso il riferimento alla guida del Re “Duce supremo”.

Come possono i giovani credere nella Patria, al di là delle urla di gioia e degli applausi al passaggio delle frecce tricolori o in occasione del successo di atleti in maglia azzurra, se il sentimento della Patria non è condiviso, come ricorda Scruton, dalle forze politiche e dalle autorità dello Stato?

Noi raccogliamo quel sentimento e, giorno dopo giorno, ne facciamo un motivo operoso di orgoglio e di speranza.


* Intervento al Convegno “Buon compleanno Italia” che si è tenuto  nella Sala del Risorgimento dell’Hotel Massimo d’Azeglio, in Roma, via Cavour, 18, il 16 marzo, per iniziativa dell’Unione Monarchica Italiana, in collaborazione con. il Centro Studi “Vittorio Emanuele Orlando”

[1] Camera dei deputati, seduta del 25 marzo 1861, in C. Benso di Cavour, Autoritratto, lettere, diari, scritti e discorsi, a cura di A. Viarengo, prefazione di G. Galasso, BUR, Milano, 2010, 716.

[2] Nell’avvertenza a: I. Montanelli – M. Cervi, L’Italia della Repubblica, Rizzoli, Milano,1985,7.

[3] Legge n. 222 del 23 novembre,

[4] E. Gentile, Italiani senza padri, Laterza, Bari, 2010, 12.

[5] Inferno, XXXIII, 80.

[6] F. Bruni, Italia, vita e avventura di un’idea, Il Mulino, Bologna, 2010, 76.

[7] Monarchia, II, VI, 10.

[8] F. Brancucci, Italia, in Enciclopedia dantesca – Treccani, vol. 10, 366.

[9] C. Benso di Cavour, Autoritratto, cit., 716.

[10] M. Veneziani, Dante, Nostro Padre, Vallecchi, Firenze, 2020, 13.

[11] Nella introduzione a “Il bisogno di nazione”, Le Lettere, Firenze, 2012.

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