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“Un po’ di Roma”, alla vigilia della Breccia di Porta Pia

di Salvatore Sfrecola

Incastonato in una copertina dai caldi colori dell’800 romano, tra un quadro di Bartolomeo Pinelli ed uno di Claude Lorrain, giunge in libreria, in concomitanza con le celebrazioni della Breccia di Porta Pia (20 settembre 1870), “Un po’ di Roma”, romanzo storico di Alessandro Sacchi, pubblicato dall’Editore Fioranna (Napoli 2020, pp. 91, € 12,00), per la Collana Le Perle. “Un po’ di Roma”, quel che a taluno sembrava possibile rimanesse al Papa Pio IX una volta che la Città fosse divenuta capitale del neonato Regno d’Italia. Un po’, solo un po’ della città, quanto necessario per garantire l’indipendenza della Santa Sede e del romano Pontefice.

Si leggono tutto d’un fiato queste pagine, seguendo il susseguirsi degli eventi, una narrazione che è come un affresco gradevole di ambienti e di persone, tra Napoli e Roma, nella primavera calda e odorosa del 1870. Immagine plastica della “questione romana”, come già veniva definita, che Sacchi ci conduce a riscoprire attraverso alla missione che sarà affidata a Don Salvatore d’Alessandro, il protagonista del romanzo, nell’estremo tentativo di conciliare in qualche modo l’aspettativa degli uomini del Risorgimento di fare di Roma la Capitale d’Italia e l’intransigente difesa del potere temporale del Papa Re.

La Roma, senza la quale “l’Italia non si può costituire”, come aveva detto Cavour in un famoso discorso alla Camera il 25 Marzo 1861, è sullo sfondo di questo romanzo dai riferimenti storici puntuali, che parte da Napoli, anzi da Goa, colonia portoghese dell’India, da dove proviene Don Salvatore d’Alessandro, giovane sacerdote della Compagnia di Gesù. Che sbarca a Napoli per un breve soggiorno nel palazzo avito, una sosta verso Roma, convocato dal Preposito generale dei Gesuiti, Padre Pierre-Jean Beckx, per un incarico che lui ancora non conosce, ma che immagina importante, se il “Papa Nero” ha voluto che abbandonasse la sua missione, quella umanitaria tra le miserabili plebi dell’India più povera, e l’altra, diplomatica, che aveva consentito il progressivo miglioramento delle relazioni con le autorità locali, che la Compagnia aveva particolarmente apprezzato. “Ascoltare prima e tacere dopo”, la regola del successo di Don Salvatore.

Torna in una Napoli, lasciata anni prima per la Spagna e poi per l’India, che trova molto diversa dalla città dove era nato e vissuto. Torna tra i suoi affetti, Il fratello, la cognata, i nipoti, nell’atmosfera affettuosa di una nobile famiglia napoletana che Alessandro Sacchi fa rivivere attraverso la descrizione degli ambienti e delle persone che l’animano, compreso il personale di servizio, trattato come fosse parte della famiglia. Tutti felici di rivederlo.

Questa Napoli, da poco divenuta italiana, accoglie Don Salvatore con l’affettuosa rievocazione dei ricordi di famiglia, di quelli che raccontano soprattutto le nonne, custodi gelose delle tradizioni e delle storie personali. Che si ritrovano negli arredi, dello studio e della camera da letto, del salotto al centro della vita di tutti i giorni, tra i pranzi e le cene nelle quali si gustano ricette antiche, spesso rivisitate da contaminazioni francesi e spagnole. E la sera si conversa dinanzi ad un bicchierino di porto ricercando il profumo del sigaro preferito.

Don Salvatore è immerso nell’atmosfera familiare, anche nella residenza di campagna negli Abruzzi, luogo di ricordi e nostalgie giovanili. Con lui il fratello Gaetano e il nipote Annibale, che ha bisogno dei consigli dello zio che volentieri lo ascolta e gli suggerisce per gli studi e la vita.

Breve è la permanenza a Napoli. Salvatore ne porterà la nostalgia a Roma, al Collegio Romano, con i confratelli e con il Padre Generale, che gli svela la missione, estremamente delicata, che intende affidargli, per capire quali spazi ci fossero nel particolare momento storico per affrontare e forse contribuire a risolvere la “questione romana”, secondo gli auspici del Risorgimento nazionale.

Nello studio privato del Generale, una stanza piccola, dove studiare e pregare e incontrare ospiti, ai quali far sentire una speciale attenzione, Padre De Beckx entra subito in tema, richiama i rapporti internazionali tra Guglielmo di Prussia e Napoleone III, che sono sullo sfondo della diatriba tra Italia e Santa Sede per Roma. E indica i termini della missione: “cauti sondaggi con il governo italiano al fine di individuare un percorso che consenta a loro di concludere il cammino indicato dal loro Cavour, che tutto sommato era un buon diavolo, a suo tempo, e a noi di salvare non solo la faccia”. Un messaggio di ragionevole prudenza che in qualche modo Don Salvatore avrebbe dovuto trasmettere al Cardinale Antonelli, il potente Segretario di Stato di Papa Pio IX, duro e reazionario, nemico dei liberali che, quando può, manda al patibolo, come, da ultimo, Monti e Tognetti, decapitati per avere organizzato un attentato per scuotere i romani e farli insorgere. “Un problema”, insomma, questo interlocutore per il giovane sacerdote. Avrebbe dovuto convincerlo dando a lui l’impressione che, in fin dei conti, la soluzione era uscita “dalla sua testa”.

Al Palazzo del Quirinale, in fondo alla Manica Lunga, al lato sud dell’immensa reggia dei papi, nello studio privato, Giacomo Antonelli, Cardinale di Santa Romana Chiesa e Segretario di Stato, il vero governatore dello Stato della Chiesa, accoglie Don Salvatore non senza qualche diffidenza. In altri tempi non avrebbe interpellato un membro della Compagnia di Gesù per una missione diplomatica sia pure informale. Don Salvatore incontra anche il Santo Don , che lo riceve per salutarlo e benedirlo. È l’avallo dell’incarico. Il Pontefice appare stanco, sfiduciato perché “non è possibile fermare la storia” ed è inevitabile che Roma diventi italiana e capitale del Regno. Ma quell’anziano uomo di Dio esprimerà ancora una forza straordinaria rivendicando il diritto di essere libero nell’esercizio delle sue funzioni di capo della Chiesa ed anche sovrano, purché gli rimanesse anche solo “un po’ di Roma”.

La missione è un abboccamento con il Marchese Brichera di Courchevel, incaricato d’affari d’Italia presso l’ambasciata italiana a Bruxelles, in vacanza, probabilmente non a caso, dalle parti di Tivoli, che Don Salvatore avrebbe raggiunto a cavallo. Molto garbato ma fermo il diplomatico italiano, fa capire che la decisione è presa, che Roma sarà italiana, anche se nessuno vorrà “procurare dispiaceri al Santo Don ”. Il Re d’Italia avrebbe lasciato al Santo Don quel tanto di territorio che gli avrebbe consentito, in piena libertà e autonomia, di esercitare la sua alta funzione spirituale. Con “un po’ di Roma” a disposizione.

Missione fallita, dunque, quella di Don Salvatore, che, rientrato a Goa, di lì a poco avrebbe saputo del precipitare degli eventi, della sconfitta di Napoleone III a Sedan, che avrebbe aperto la strada all’ingresso dei Bersaglieri a Roma attraverso la Breccia nei pressi di Porta Pia, dopo una breve battaglia, solo perché fosse evidente che il Papa cedeva alla violenza.

Alessandro Sacchi è al suo primo romanzo. Con mano ferma conduce i lettori attraverso i protagonisti a rivivere un evento che è parte essenziale della vicenda risorgimentale nella quale la neutralità della descrizione non nasconde la condivisione di eventi storici che, lontani nel tempo, sono vivi nei cuori e nelle menti di coloro che si sentono eredi di quella stagione che aveva esaltato la libertà delle regole statutarie fin dal 1848 quando tra i sette staterelli dell’Italia disegnata dal Congresso di Vienna, spesso ferocemente illiberali, solo il Piemonte sabaudo aveva saputo offrire agli italiani provenienti da ogni regione una sponda sicura per perseguire l’obiettivo antico dell’unità della Nazione. Col pensiero e con l’azione, arruolandosi sotto le insegne del re di Sardegna che sarebbe divenuto, con il concorso di tanti, il primo Re d’Italia. Alla vigilia di quel colpo di cannone che alle cinque della mattina del 20 settembre 1870 avrebbe iniziato a sgretolare le antiche mura aureliane mura vicino a Porta Pia.

Nel silenzio vile delle rivocazioni ufficiali, questo romanzo storico costituisce un apporto significativo al dibattito sui 150 anni dell’annessione di Roma allo Stato nazionale. Sacchi, avvocato, brillante cassazionista, oratore forbito e colto, di solida cultura umanistica, filosofica e storica, ci offre questa illustrazione della sua Napoli, nobile decaduta ma pronta a risorgere nel nuovo regno, e di una Roma sonnolenta e silenziosa con il traffico delle carrozze ridotto al minimo, quasi la città aspettasse trepida gli squilli della fanfara dei Bersaglieri, avanguardia gioiosa del Regio Esercito.

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