sabato, Luglio 27, 2024
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Intendiamoci sul concetto di laicità dello Stato. Ne va della democrazia.

di Salvatore Sfrecola

La polemica che ha fatto seguito alla “nota verbale” del 17 giugno, notificata dalla Santa Sede al Governo italiano, a proposito di taluni aspetti del disegno di legge Zan, recante “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, continua a tenere banco nel dibattito politico, sulla stampa e nelle televisioni. Ed è certo che lo sarà ancora a lungo, anche se il disegno di legge dovesse essere approvato con alcune modificazioni. La Santa Sede “rileva che alcuni contenuti dell’iniziativa legislativa — particolarmente nella parte in cui si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere” — avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario. Diverse espressioni della Sacra Scrittura, della Tradizione ecclesiale e del Magistero autentico dei Papi e dei Vescovi considerano, a molteplici effetti, la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina. Tale prospettiva – prosegue la Nota – è infatti garantita dall’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana di revisione del Concordato lateranense, sottoscritto il 18 febbraio 1984. Nello specifico, all’articolo 2, comma 1, si afferma che “la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione. In particolare è assicurata alla Chiesa la libertà di organizzazione, di pubblico esercizio del culto, di esercizio del magistero e del ministero spirituale nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica”. All’articolo 2, comma 3, si afferma ancora che “è garantita ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

“La Segreteria di Stato auspica pertanto che la Parte italiana possa tenere in debita considerazione le suddette argomentazioni e trovare una diversa modulazione del testo normativo, continuando a garantire il rispetto dei Patti Lateranensi, che da quasi un secolo regolano i rapporti tra Stato e Chiesa e ai quali la stessa Costituzione Repubblicana riserva una speciale menzione”.

La tesi “non fa una grinza”, avrebbe detto mio Nonno. Ed io avevo intuito qualche possibile difficoltà derivante dal ddl Zan quando, su questo giornale, il 23 giugno,  mi sono chiesto se potremo ancora ricordare il passo della Bibbia, laddove è scritto che “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; Maschio e femmina li creò”. Insegnamento proprio di una religione “rivelata”, che assume la sua “verità” proprio dalla tradizione, a cominciare dal libro che costituisce la Sacra Scrittura, la Bibbia, il Libro per eccellenza.

Con la conseguenza che appare certamente lesivo delle prerogative delle scuole cattoliche, cui la legge n. 62/2000 riconosce, come a tutte le scuole private, “piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale e l’indirizzo pedagogico-didattico” l’imposizione di un orientamento culturale se (art. 7, comma 3) “In occasione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia sono organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile per la realizzazione delle finalità di cui al comma 1. Le scuole, nel rispetto del piano triennale dell’offerta formativa di cui al comma 16 dell’articolo 1 della legge 13 luglio 2015, n. 107, e del patto educativo di corresponsabilità, nonché le altre amministrazioni pubbliche provvedono alle attività di cui al precedente periodo compatibilmente con le risorse disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

Se questa non è una imposizione ideologica “di parte”! Bastava dire tutti devono rispettare le idee degli altri, purché non costituiscano reato contro le libertà costituzionali politiche e personali. Invece si vuole “democraticamente” imporre una opinione, in contrasto con altre, ad esempio con la tradizione cristiana e cattolica. Ciò che, correttamente, la Santa Sede ritiene possa costituire violazione del Concordato fra la medesima Santa Sede e lo Stato italiano.

Nel pieno del dibattito il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ritenendo in tal modo di stemperare la polemica, ha voluto precisare, parlando alla Camera, che il nostro è uno Stato laico, “non è uno stato confessionale”. Con tutto il rispetto dovuto all’illustre Presidente del Consiglio l’affermazione è come la classica scoperta dell’acqua calda. Nel senso che nessuno mai ha messo in dubbio la laicità dello Stato, neppure quando sarebbe stato lecito farlo sulla base dello Statuto Albertino, secondo il quale, all’articolo 1, “La Religione Cattolica Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”. Infatti, vigente quella carta costituzionale nel Regno di Sardegna, pur tra tensioni non lievi e vivaci contrapposizioni in ambito governativo e parlamentare giunte a coinvolgere finanche la Corona (il cattolicissimo Re Vittorio Emanuele II), furono emanate leggi che eliminarono il privilegio del Foro Ecclesiastico, ritenuto in contraddizione con i principi della laicità dello Stato (a proposito!) e della eguaglianza dei cittadini. Seguì la soppressione degli enti ecclesiastici non impegnati nell’istruzione, nella predicazione e nell’assistenza sanitaria.

Laico, dunque, significa, in una prima approssimazione un po’ semplicistica, che lo Stato non ispira la sua azione politica a precetti di natura religiosa. Tuttavia, il tema suggerisce qualche ulteriore approfondimento perché, in fin dei conti, anche uno stato laico nella sua azione politica e nella legislazione si conforma ad indicazioni provenienti dal contesto culturale maggioritario nell’ambito della comunità tra cui, ovviamente, quelle portate avanti da partiti politici con forte caratterizzazione ideologica, la cui filosofia politica si ingerisce anche in aspetti della vita delle persone, dalla famiglia all’istruzione, ritenuti funzionali a plasmare la società. Ad esempio, in materia di cittadinanza e di immigrazione, argomenti che impegnano sovente quanti in politica si professano “cattolici”. In questi casi, ovviamente, nessuno protesta, nessuno lamenta ingerenze della Chiesa negli affari dello Stato. Nessuno ritiene che i ripetuti richiami all’accoglienza senza limitazioni costituiscano un’ingerenza non consentita. Anzi è diffusa la convinzione che, poiché il Santo Padre, che di quelle esortazioni si fa sovente portavoce, faccia nient’altro che il suo dovere di Pastore di quella gente diseredata. Che tale è certamente, anche per quanti ritengono che comunque accogliere tutti non è materialmente possibile, a tacer d’altro per il costo che grava sul bilancio dello Stato. Ma di questo, ovviamente, il Santo Padre non si preoccupa. Né se ne preoccupa il “partito dell’accoglienza”.

È, dunque, formalistico e fortemente ipocrita ritenere che lo stato laico debba tenersi lontano, nella sua legislazione, dalle visioni ideali della società formulate da movimenti di opinione, tra i quali senza dubbio hanno legittimazione anche quelli che si ispirano a credenze religiose con una conseguente visione della società. Per non dire di quelle che nel linguaggio dei politologi spesso vengono definite “religioni politiche” non ispirate a indicazioni trascendenti ma molto più pervasive e non di rado totalitarie, come il Comunismo e il Nazismo, entrambi atei e impegnati a costruire “l’uomo nuovo”, espressione ricorrente nei regimi totalitari. Nei quali l’uomo appartiene totalmente al partito-stato, come, sotto il profilo religioso, “appartiene totalmente alla Chiesa”. Lo affermava il 18 settembre 1930 il papa Pio XI, in polemica concorrenza con il Fascismo. Con la differenza, non irrilevante, che coloro i quali violano i precetti religiosi fanno peccato, e possono pentirsi, mentre quanti vengono meno alle indicazioni del regime commettono un reato cui consegue una pena.

Come distinguere, dunque, una religione ispirata ad un credo rivelato o comunque trascendente dall’ideologia di un partito politico impegnato a plasmare la società, fin dalle scuole dell’infanzia? Ciò di cui si lamenta la Santa Sede che ritiene, giustamente, colpito il pluralismo dell’insegnamento dall’imposizione di un modello educativo in presenza non solo del Concordato ma anche di una disposizione costituzionale, l’art. 33, che, al comma 4, introduce e consacra il “pluralismo scolastico” assicurando “piena libertà” alle scuole non statali, esclusa ogni forma di monopolio pubblico.

Perché di questo si tratta. Al di là del tono pacato dell’on. Zan il suo disegno di legge, che intende certamente contrastare la violenza, aspetto assolutamente condivisibile, intende affermare un costume, una concezione della famiglia che legittimamente altri cittadini italiani non accettano non solamente per motivi di insegnamento religioso perché la sorte dei bambini affidati ad una coppia omosessuale, privati della figura maschile e femminile, appare a molti capace di turbare profondamente i piccoli, ai quali nessuno penserebbe mai di chiedere se in quel contesto si sentono o meno felici. Non abbiamo in Costituzione, come negli Stati Uniti un diritto “alla felicità”, ma abbiamo il rispetto della personalità di ciascuno. E non è dubbio che sia compressa per effetto del ddl Zan.

Il tema, come s’intende, è impegnativo. Per cui ha fatto bene il Vescovo di Verona, Monsignor Giuseppe Zenti, a dire la sua nell’omelia in occasione della Messa per la festa dei Santi Pietro e Paolo. “Come cittadino di uno Stato laico – ha esordito – ho il dovere di parlare”. E si è rivolto ai fedeli toccando tutti i temi sensibili. “Esiste solo un tipo di famiglia quella composta da un uomo e una donna. E i bambini hanno il diritto di chiamare i propri genitori mamma e papà, non genitore 1 e genitore 2”. Non solo, il Vescovo si è occupato anche dell’aborto: “il cittadino si schiera sempre dalla parte dei possibili discriminati, a cominciare dall’inizio della vita. E lo fa considerando l’aborto un orrendo delitto, anche se la legge lo valuta diritto, perché tale è agli occhi di Dio”. Una concezione della società che accomuna i cattolici, i cristiani e molti altri che, interpellati, si direbbero laici. E non c’è dubbio che in questi termini sia consentito ad un cattolico di rivendicare questa sua verità.

Ecco perché in altro contesto non sarebbe stato necessario che la Santa Sede richiamasse il Concordato e la sua possibile violazione. In un contesto veramente laico alle scuole cattoliche nessuno penserebbe di imporre un indirizzo che, non volendo formalmente discriminare, in effetti discrimina imponendo una concezione della società e dei suoi valori che un cattolico non può accettare.

Se è parso necessario invocare il Concordato, un atto normativo, è perché tra i valori della società oggi non emergono quelli desumibili dall’insegnamento della Chiesa cattolica. È cominciato all’indomani del 1946, quando la Democrazia Cristiana sembrava quasi imbarazzata da quell’aggettivo “cristiana”, quasi se ne dovesse giustificare di fronte ai partiti portatori delle “religioni” del comunismo e del socialismo. E così più che dei valori quei democristiani per decenni hanno difeso il potere, desiderosi di apparire più laici dei laici tradizionali, con l’effetto di favorire la progressiva perdita dei riferimenti ideali alla Dottrina sociale della Chiesa. Contemporaneamente è mancata la tenuta di quel sentimento di italianità che storicamente aveva permeato la società di spirito religioso e del sentimento di appartenenza, dal Risorgimento a Vittorio Veneto, un tempo nel quale l’identità italiana si è andata formando sulla base di una aspettativa coltivata nel corso dei secoli dagli uomini di cultura. Con la conseguenza che oggi gli italiani si ricordano di essere tali solamente quando gioca la nazionale di calcio. I nostri concittadini, purtroppo, sono, nella quasi totalità, privi di valori civili, abbandonati all’indomani del referendum istituzionale del 2 giugno 1946, quando, come ha scritto Indro Montanelli, degli italiani che avevano scelto Repubblica “pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità”. Eppure, dei voti attribuiti alla Monarchia nel referendum la maggior parte andò alla Democrazia Cristiana nelle elezioni per la Costituente. Un dato del quale il partito di De Gasperi avrebbe dovuto tener conto.

Non è avvenuto, perché i “cattolici democratici”, in un partito di centro “che guarda a sinistra”, non hanno dimostrato di credere nell’identità nazionale, del senso della Patria comune, forse perché molti di loro si sentivano eredi di quanti in passato non avevano condiviso il processo unitario attuato in conflitto con il potere temporale, assurdamente difeso, nonostante la sua evidente connotazione antistorica, come avrebbe riconosciuto il Cardinale Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, in occasione della ricorrenza del centenario dell’unità d’Italia. Assenti i valori risorgimentali, ignorati anche dall’altra grande forza politica, il Partito Comunista Italiano, l’Italia non ha saputo costruire una società che valorizzasse i comuni valori civili e spirituali.

Trascurati, anzi compressi i valori identitari, un popolo che non crede altro che nella Nazionale di Calcio doveva necessariamente trascurare anche quelli religiosi, complice un clero che, in molti contesti ha abbandonato le tradizionali vocazioni all’insegnamento, efficacemente praticato quando con le scuole popolari lottava contro l’analfabetismo, oltre che a supportare il tempo libero dei giovani con attività sportive, dagli oratori agli scout. Degli uni e degli altri non si ha praticamente più traccia.

In questo contesto sociale, sembrano indignare solamente i laici gli insulti sistematici recati ai simboli della religione cristiana e della divinità, di cui si è avuta plateale manifestazione proprio nei giorni scorsi. E che ripetuti nel tempo determinano quella assuefazione alla volgarità che diventa sempre più difficile contrastare.

E, invece, di un laico “devoto” deve intervenire un Vescovo a dire ovvietà per un cattolico, come padre e madre. E, quel che pè più grave, nessuno della Gerarchia gli dirà bravo.

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