sabato, Luglio 27, 2024
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L’astensionismo nelle urne: chi lo teme e chi ci spera

di Salvatore Sfrecola

I sondaggi sulle intenzioni di voto ci dicono che, a due giorni dall’apertura delle urne, molti italiani non hanno ancora deciso come votare e se votare. Compare anche sui social sempre più spesso un invito a non votare. Qualcuno che si vanta di non aver votato da anni e che comunque il 25 settembre andrà al mare o ai monti. E questo è un problema per la nostra democrazia. Il voto, infatti, non è soltanto un diritto, perché il suo esercizio, come afferma la Costituzione all’articolo 48, è “dovere civico”. E si comprende facilmente il senso di questa affermazione, dacché astenersi significa non partecipare alla vita democratica del Paese.

Leggo, in proposito, un bell’editoriale di Davide Rossi, Professore di Storia del diritto, su L’Arena di Verona, che ricorda un grande giurista austriaco, Hans Kelsen, il quale evocava lo spettro della crisi del sistema parlamentare e più in generale della democrazia, la quale, così richiama Rossi il pensiero dell’illustre giurista, “se non è diretta e partecipativa, rischia di diventare una mera finzione, svuotata di quel minimo contenuto rappresentativo che ne consente il pieno funzionamento”.

È necessario capire per quali motivi qualcuno rinunci ad esercitare un diritto proprio che ne sottolinea la dignità di cittadino. Tanto più se quel “qualcuno” non è un elemento isolato ma si accompagna ad altri milioni di cittadini che gonfiano progressivamente la percentuale degli assenti dalle urne. Infatti, nel caso della recente elezione suppletiva a Roma, per il seggio lasciato libero alla Camera dal neosindaco Roberto Gualtieri, ha votato poco più dell’11% degli aventi diritto. Un dato allarmante, considerata anche l’importanza del seggio in un municipio centrale della Capitale nel quale i partiti che avevano perduto nell’elezione per il sindaco ritengo avrebbero dovuto puntare ad una sorta di rivincita.

E questo dimostra che il problema dell’astensione dal voto ha molte cause. In primo luogo, da ricercare nella “totale assenza di partiti politici che sappiano concretamente svolgere un ruolo valoriale e di mediazione nella società”, scrive il Prof. Rossi. Perché “la partecipazione alla vita politica è il presupposto fondativo di una sana democrazia, in quanto elemento legittimante attraverso il consenso della cittadinanza”. E si chiede come sia stato possibile passare dalla “partecipazione oceanica – con le cronache che narravano di lunghe code fuori dai seggi, durante la votazione del 2 giugno 1946”, alla recente, richiamata affluenza nell’elezione suppletiva a Roma.

L’analisi è assolutamente condivisibile e si desume da molte delle affermazioni ricorrenti da parte di coloro che dicono di non votare: “è inutile votare tanto non cambia niente”, governano “sempre gli stessi”, “se in tanti non andiamo a votare i partiti si renderanno conto del disagio dei cittadini”. Tutte tesi che ho contrastato ripetutamente intervenendo su Facebook o su Tik Tok ricordando che, a mio avviso, quel “dovere civico” che la Costituzione richiama, è un invito autorevole a partecipare, anche quando non si individua il partito o la persona gradita, perché in democrazia l’espressione della volontà dell’elettore può essere espressa sia votando a favore che contro, cioè votando un partito che impedisca che si rafforzi quello che comunque non si vuole. Anche perché, come ho letto su Facebook, “se non voti lasci decidere agli altri”, probabilmente a quelli che comunque non piacciono.

Il tema, ovviamente, merita ulteriori approfondimenti. Ed evidenzia la responsabilità dei partiti che, come ha scritto il Prof. Rossi, non hanno saputo “concretamente svolgere un ruolo valoriale e di mediazione nella società”. Ciò che è in gran parte conseguenza del sistema elettorale che, non prevedendo la scelta del candidato con le sue idee e le sue proposte, spegne l’interesse dell’elettore che sente la propria scelta irrilevante se non inutile. Anche perché i partiti, alla ricerca spasmodica del consenso, evitano di parlare di temi cosiddetti “divisivi”, quelli etici, in particolare. Una condizione evidente anche nella circostanza che tutti i partiti si dicono contemporaneamente democratici, liberali, europeisti ma si guardano bene dall’inserire nella loro denominazione qualsiasi riferimento a ideologie che, per loro natura, segnano le distinzioni. Nessuno si dice socialista, democratico cristiano, comunista, e neppure repubblicano, anche se uno spirito “repubblicano” viene di tanto in tanto evocato, senza che sia esplicitato cosa significhi. Anche perché non si rinviene uno spirito “monarchico” che, al più, riguarda l’ordinamento dello Stato alimentato, in particolare in questi giorni, dall’emozione seguita alla morte della Regina Elisabetta II, per l’attenzione alle regole di funzionamento del Regno Unito, che non a caso ha una Camera “dei comuni” dal 1215 ed una legge elettorale che esalta il rapporto tra candidato ed elettore. Ed esprime plasticamente quella teoria della “separazione dei poteri” che ha reso famoso il Barone di Montesquieu che ne aveva scritto nel 1748 ne De l’esprit des lois,proprio osservando i rapporti tra Sovrano, Governo e Parlamento sulle rive del Tamigi.

I partiti sono estranei al dibattito sociale, non hanno sezioni o circoli che siano luoghi di ascolto dell’opinione pubblica o di elaborazione di idee, nei quali possano emergere personalità destinate ad assumere ruoli di responsabilità ai vari livelli di governo. Neanche la vita culturale sembra interessare più di tanto i partiti che, al massimo, si preoccupano di “piazzare” qualcuno dei loro in istituzioni universitarie, centri di ricerca, case editrici, giornali e televisioni, nell’ottica non di sviluppare idee ma di favorire il consenso.

Il Prof. Rossi distingue l’astensionismo “volontario per protesta o indifferenza” da quello “istituzionale”. Il primo è conseguenza della “sfiducia nei confronti della politica”, il secondo è conseguenza di tutta una serie di condizioni che ostacolano la partecipazione al voto, “i grandi anziani, gli anziani con infermità o disabilità, i lavoratori o gli studenti fuori sede, senza tralasciare le occasionalità di motivi che porta molte persone ad essere lontano dalle loro abitazioni nei giorni di votazione”. E suggerisce alcune soluzioni, come la possibilità di votare in seggi diversi da quello stabilito in ragione della residenza, ma anche il voto elettronico e per corrispondenza, che peraltro qualcuno troverebbe manipolabile. Soprattutto quello elettronico, con il rischio che il nipote voti per il nonno, meno aduso agli strumenti elettronici.

Insomma, un grave problema per la democrazia che diventa anche un incubo per i partiti dacché non è facile immaginare chi dall’assenteismo potrebbe trarne un danno immediato o un indiretto vantaggio. Condizioni sulle quali è certo si soffermeranno gli osservatori della politica fin dalla tarda serata del 25, quando cominceranno ad essere comunicati, prima gli exit poll, poi i risultati delle prime schede scrutinate nei seggi campione che i sondaggisti hanno identificato come rappresentativi del corpo elettorale.

Ne riparleremo.

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