sabato, Luglio 27, 2024
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“Senso dello Stato zero!”. A chi si riferiva Gianfranco Fini?

di Salvatore Sfrecola

“Senso dello Stato zero”. Non ho mai chiesto a Gianfranco Fini, al quale l’ho sentita ripetere più volte, a chi si riferisse con questa frase, quando rientrando nel suo studio al secondo piano di Palazzo Chigi al termine di incontri con esponenti del Governo (2001-2006), si mostrava particolarmente contrariato. Erano riunioni col Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ed altri esponenti della maggioranza. Ed io, che ero il suo Capo di Gabinetto, lo attendevo per chiedere se nell’incontro fossero state assunte decisioni che in qualche modo mi coinvolgessero, magari in vista di qualche riunione preparatoria del Consiglio dei Ministri, il “Preconsiglio”, come viene chiamato tra gli addetti ai lavori, quell’incontro tra Capi di Gabinetto e Capi degli Uffici legislativi nel quale vengono messi a punto i provvedimenti destinati all’o.d.g. di una prossima seduta del Governo. 

Non ho mai chiesto a chi il Vicepresidente si riferisse perché, molto probabilmente, nella mia mente quell’espressione non poteva che avere come destinatari che uno o due personaggi. In primo luogo, il Presidente-imprenditore, che molti di noi avevano ammirato per le sue iniziative quale costruttore di importanti complessi immobiliari a Milano e inventore di tre canali televisivi che avevano rotto il monopolio della RAI innovando nell’informazione e nelle trasmissioni d’intrattenimento. La sua “discesa” in politica, annunciata con un messaggio video particolarmente accattivante per i riferimenti alla libertà, “al Paese che amo” e all’anticomunismo, aveva avuto uno straordinario effetto su quanti di noi negli anni passati avevano votato Democrazia CristianaPartito Liberale, Alleanza Nazionale, il partito che nella “svolta” di Fiuggi aveva proposto una destra rinnovata, di governo, inclusiva, che aveva destato l’interesse di personalità lontane dal vecchio Movimento Sociale Italiano. Due nomi per tutti, Domenico Fisichella, uno studioso di scienza della politica di fama internazionale, liberale, espressione della cultura risorgimentale dello Stato monarchico rappresentativo, che sarebbe stato a lungo Vicepresidente del Senato, e Learco Saporito, un vivace parlamentare campano che da senatore della Democrazia Cristiana aveva saputo condurre in porto importanti riforme normative riguardanti le magistrature amministrative e la Corte dei conti. Fu lui, con il quale, nella veste di Presidente dell’Associazione Magistrati della Corte dei conti, avevo avuto importanti interlocuzioni in tema di riforma della magistratura contabile, a chiedermi di collaborare con Gianfranco Fini che, in vista del suo ingresso nel Governo come Vicepresidente del Consiglio, lo aveva incaricato di costituire l’Ufficio di Gabinetto.

E così, se non ho mai chiesto a Fini a chi si riferisse con quella icastica espressione, “senso dello Stato zero”, era perché ritenevo fosse un giudizio su atteggiamenti di Silvio Berlusconi che giorno dopo giorno non dimostrava di essere entrato nel ruolo di uomo di stato, capace di lasciar fuori della porta interessi privati, pur legittimi, e manteneva una mentalità ostile al pubblico, che certamente richiede radicali riforme perché adempiano meglio al loro ruolo. A cominciare dalle Camere che abbiamo sentito dire dal Presidente del Consiglio che gli facevano perdere tempo.

Aveva disturbato molti di noi il fatto che, alla sua prima esperienza di governo, nel 1994, Berlusconi avesse proposto al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, di nominare Ministro della Giustizia l’avv. Cesare Previti, suo legale di fiducia. Poi avremmo saputo che da qualche tempo vari uffici giudiziari si interessavano di vicende varie che lo riguardavano, sotto il profilo di ipotesi di corruzione e di evasione fiscale. Lui si proclamava vittima di un accanimento giudiziario. Qualche volta è parso che così fosse, soprattutto quando le indagini hanno riguardato comportamenti privati enfatizzati dalla pruderie di certa stampa. Ma una sentenza definitiva ha portato alla sua esclusione dal Senato, in applicazione della “legge Severino”.

Come nel 1994, oggi Berlusconi chiede a Giorgia Meloni, a quel che si legge sui giornali, il Ministero della Giustizia per un esponente di Forza Italia. Si sente dire che dovrebbe demolire la legge Severino che prevede incandidabilità e decadenze per i condannati. Un atteggiamento arrogante e non poco sciocco, perché una riforma della legge, la cui applicazione ha dimostrato l’esigenza di qualche limatura, sarebbe meglio nascesse in Parlamento, ad evitare di dare all’opposizione argomenti per una polemica della quale la maggioranza non sente certo il bisogno in un settore, quello della Giustizia, assai delicato che, per affrontare le riforme necessarie, deve evitare conflitti inutili.

E così Berlusconi, al quale va stretto il ruolo di comprimario in una coalizione necessariamente guidata dal leader del partito di maggioranza, cerca di disturbare il manovratore con quelle che sembrano vere e proprie azioni di guerriglia, l’astensione dal voto del Presidente del Senato e quel foglietto lasciato lì in bella posta all’attenzione dei cronisti, per far sapere che qualcuno ha da ridire sull’atteggiamento di Giorgia Meloni, che giudica, tra l’altro, supponente e arrogante. Lei risponde secca, “non ricattabile”. Che vuol dire avere senso dello Stato.

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