di Salvatore Sfrecola
Alla vigilia delle elezioni regionali, l’annuncio del disegno di legge Calderoli sull’“autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario” è parso a Letizia Moratti, candidata Presidente della Regione Lombardia, solo uno “spot elettorale”. Per Michele Ainis, costituzionalista, che ne ha scritto su La Repubblica del 3 febbraio, all’indomani dell’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, si tratta di un’“Autonomia zoppa e barocca”. Per vari aspetti critici, a cominciare dalla definizione dei LEP, i “livelli essenziali delle prestazioni”, che la Costituzione all’articolo 117 vuol garantire per rendere omogenea la fruizione dei diritti, ai sensi dell’art. 3 della Costituzione, “il cui effettivo rispetto comporta che, almeno per le prestazioni essenziali, siano garantite ai cittadini su tutto il territorio nazionale pari condizioni in termini di accesso, qualità e costi”, come ha ribadito la Corte dei conti nell’audizione dinanzi alla Commissione di studio sull’autonomia differenziata della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie.
La legge n. 197 del 2022 stabilisce che i LEP vadano definiti “nell’ambito degli stanziamenti di bilancio a legislazione vigente”, ciò che rende evidente come il nodo centrale di questa riforma è costituito dalla disponibilità delle risorse di bilancio. Per cui i livelli che si definiranno saranno necessariamente “livelli minimi”, senza maggiori investimenti, “lasciando a stecchetto i poveri (le Regioni del Sud), ma permettendo d’ingrassare i ricchi”, scrive Ainis. Perché una riforma di queste dimensioni presuppone necessariamente un livello di partenza delle varie regioni omogeneo, ciò che non è, per antica, grave trascuratezza dello Stato nazionale che si somma ad una atavica inefficienza della classe politica ed amministrativa di quelle regioni.
Un esempio si rinviene nell’unica spesa significativa allocata nei bilanci regionali, quella sanitaria, realizzata su risorse trasferite dallo Stato, che si dimostra da sempre non adeguata alle esigenze, tanto che alcune prestazioni non sono garantite nel migliore dei modi in alcune regioni meridionali, come dimostra l’esodo costante di pazienti da Sud a Nord, il che certifica che non c’è una unità nella qualità dei servizi. Questa è una situazione antica. Se noi pensiamo, ad esempio, che servizi essenziali, fondamentali per lo sviluppo di un territorio, come le ferrovie o le strade, al Sud, che ha una spiccata vocazione agricola e turistica di altissima qualità, sono gravemente carenti, tanto nel trasporto merci come nel trasporto passeggeri, quel mezzo che, secondo Camillo Benso di Cavour, che ne scriveva nel 1846, avrebbe unificato l’Italia. Quel grande statista, che aveva una visione dell’Italia nel suo complesso, intravedeva nel trasporto su ferro la possibilità di concorrere in modo determinante alla unificazione ed alla crescita economica dell’Italia, perché i treni avrebbero portato le merci del Sud al Nord e in Europa, ed i turisti che già allora venivano a visitare i tanti luoghi d’arte sparsi nella penisola sarebbero stati sempre più indotti a percorrere i grandi itinerari culturali italiani dall’uso del treno. Inoltre, l’Italia, con i suoi porti meridionali, Napoli e Palermo, quali terminali di trasporti ferroviari, sarebbe diventata la porta d’Europa sul Mediterraneo e sull’Oriente. Porteremo le merci dell’Europa in Cina, aggiungeva il Conte di Cavour.
Questo sviluppo non è avvenuto e quindi la posizione di svantaggio atavica scandita nel “Cristo (che) si è fermato ad Eboli” si ritrova nell’alta velocità, che si è fermata a Salerno, a dimostrazione che non c’è un’omogeneità di partenza sulla quale costruire un’autonomia differenziata.
Sostengono i fautori dell’iniziativa Calderoli che l’autonomia si costruisce sulla responsabilità degli amministratori che devono rendere conto al popolo del loro operato. Una tesi che si ripete come mantra trascurando che si tratta di una pia illusione della quale occorre fare, una volta per tutte, giustizia agli occhi del cittadino, perché questo si è detto a lungo e si è dimostrato non vero.
Altre perplessità riguardano il ruolo del Parlamento mortificato nella sua espressione di rappresentanza dei cittadini. Il disegno di legge detta, infatti, una procedura verticistica nel rapporto fra gli esecutivi regionali e il governo nazionale, relegando ad un ruolo meramente consultivo il Parlamento.
Da ultimo vorrei soffermarmi brevemente su un fatto che è sotto gli occhi di tutti. Questo governo “di destra” affida la definizione dei LEP a giuristi notoriamente di sinistra, da Sabino Cassese, che dovrebbe presiedere l’apposita Commissione, secondo quel che si dice, a Giuliano Amato, a Luciano Violante ad Anna Finocchiaro, per richiamare i più significativi, come se non ci fosse nel centrodestra una disponibilità di studiosi, costituzionalisti e amministrativisti esperti della materia regionale tale da giustificare il ricorso a personalità estranee ed ideologicamente lontane. In proposito appare illuminante un articolo di Marcello Veneziani, uomo certamente di destra, che scrivendo su Il Giornale il 12 giugno 2013 titola “se la destra è morta di mediocrità”, per mettere in risalto come non sia stata costruita, ciò che sarebbe stato da molto tempo necessario, una classe politica e tecnica sicuramente di destra ispirata ai valori del liberalismo risorgimentale, quello che ha garantito le libertà fondamentali che dallo Statuto Albertino sono trasmigrati nella Costituzione repubblicana. La Commissione Calderoli, dunque, certifica quella “mediocrità” che giustifica il ricorso ad autorevoli personaggi della sinistra. Ma forse non è neppure così. Ci sono persone capaci, ma la politica le ignora.
Oltre al Professor Ainis anche il Professor Gaetano Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale a Roma, si è espresso scrivendo, sempre su La Repubblica del 3 febbraio un articolo in cui denuncia “troppe forzature diritti ridotti e Costituzione lesa”. In particolare per il previsto ricorso a decreti del Presidente del Consiglio dei ministri che dovranno individuare i LEP che, osserva, “sono sottoposti a riserva assoluta di legge”.
Ho anche recuperato un articolo di Cesare Mirabelli, già Presidente della Corte costituzionale, datato 24 luglio 2019, che su Il Messaggero, a proposito dell’autonomia afferma che, così come si era andata già delineando, “tradisce la Costituzione”, mettendo in risalto “il rischio che l’autonomia differenziata costituisca uno strumento che consolida la divaricazione esistente o determina una nuova frattura nelle condizioni economiche e sociali del Paese. La frammentazione delle discipline e il permanere di Regioni svantaggiate si ripercuoterebbe anche sulla crescita di quelle più sviluppate”.
Infine, c’è da registrare qualche osservazione critica anche da parte di Tonino Aceti, Presidente di Salutequità, che ne scrive su Il Sole 24 Ore del 27 marzo, quanto all’accesso ai servizi e ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale “con effetti diretti sull’unità del Paese”. La definizione dei LEP, aggiunge, “dovrebbe rappresentare un’opportunità e una maggiore garanzia per i cittadini, poiché dovrebbe comportare certezza, rafforzamento e allargamento del perimetro dei diritti esigibili nei diversi settori delle politiche pubbliche, rispetto allo status quo: per questo metodologicamente, sarebbe necessario partire dai nuovi diritti che si sceglie politicamente di dover garantire ai cittadini “piegando” le politiche di bilancio verso la loro piena sostenibilità e non il contrario come invece purtroppo sembrerebbero prevedere le norme sull’autonomia differenziata”.
Anche la Corte dei conti nell’audizione già ricordata, ha manifestato alcune riserve affermando che “la questione della realizzazione di livelli di autonomia differenziata non può essere presa in considerazione al di fuori del contesto attuativo del c.d. federalismo fiscale. Come è noto, a partire dalla riforma costituzionale del 2001 è stato avviato un percorso per l’attribuzione di una maggiore autonomia agli enti decentrati – volto al superamento di modelli di finanziamento fondati sulla spesa storica – mediante l’introduzione di criteri fondati sulla determinazione di costi standard e dei livelli essenziali di prestazioni, nonché di meccanismi perequativi. Lo spostamento dell’asse della finanza pubblica verso gli enti di autonomia territoriale ha comportato l’esigenza di potenziare correlativamente gli strumenti necessari ad assicurare il coordinamento di finanza pubblica tra i diversi livelli di governo.
Questo processo si è sviluppato attraverso una serie di decreti delegati: in particolare, con riferimento alla finanza regionale, il d.lgs. n. 68/2011 ha posto le basi per un modello di finanziamento che prevede la copertura integrale della differenza tra le entrate e le spese standardizzate per le funzioni fondamentali (sanità, assistenza e istruzione). I livelli essenziali delle prestazioni (LEP), cui corrispondono i fabbisogni standard necessari alla loro copertura, devono essere definiti dallo Stato e garantiti su tutto il territorio nazionale.
Tale sistema – nel quale è riconosciuta alle Regioni una più ampia possibilità di attuare politiche economiche e sociali, assicurando spazi di manovrabilità tramite i “tributi propri derivati” – non ha tuttora trovato compiuta attuazione”.