giovedì, Aprile 25, 2024
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Giovanotto con “marito”

di Salvatore Sfrecola

Qualche giorno fa, nel corso di una trasmissione televisiva di grande successo che si articola essenzialmente in domande e risposte su quesiti di carattere linguistico, culturale e di attualità, un giovanotto, al quale era stato chiesto dal conduttore chi lo seguisse da casa tra i suoi familiari, ha risposto “mio marito”. Immagino che l’espressione indichi che la persona è legata a soggetto dello stesso sesso da un rapporto di fatto o eventualmente giuridico sulla base della legge 20 maggio 2016, n. 76 (“Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”) la quale prevede il riconoscimento delle formazioni sociali costituite da due persone maggiorenni dello stesso sesso mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di (almeno) due testimoni (art. 1, commi 1 e 2).
È una legge dello Stato per cui non ho nulla da ridire, anche nel rispetto di un principio fondamentale, quello della libertà individuale di manifestare proprie personali opinioni culturali, politiche, religiose come di seguire proprie inclinazioni di carattere sentimentale o sessuale. Ritengo, tuttavia che, come per le opinioni culturali e politiche, non si debba mai fare confusione sui concetti e sulle definizioni, per non ingenerare equivoci.
Ritengo, di conseguenza, che le parole marito e moglie debbano essere riservate all’uomo e alla donna legati da un rapporto giuridicamente riconosciuto. Tanto è vero che le coppie eterosessuali “di fatto” usano il termine “compagno” e “compagna”, proprio a sottolineare che il loro legame, pur sorretto da sentimenti, non è conforme alla disciplina prevista dal codice civile per la famiglia, “società naturale fondata sul matrimonio”, come si legge nell’art. 29 della Costituzione che la concepisce formata da un uomo e da una donna, come si evince anche dai successivi articoli nei quali si prevedono doveri nei confronti dei figli, “anche se nati fuori dal matrimonio” (art. 30, comma 1 ) e l’impegno della Repubblica nella protezione della “maternità” (art. 31, comma 2).
Voglio dire, in sostanza, che la Repubblica ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, come ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 15 aprile 2010, “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, e che “per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”, nozione nella quale “è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”.
Tuttavia, i diritti ed i doveri dei membri di ogni formazione sociale non possono prescindere dalle connotazioni naturali di coloro che la compongono, elementi dai quali discende anche l’attribuzione di diritti e di doveri naturalmente esercitabili, come la maternità, che è propria delle donne.
L’avevano ben compreso i romani che, pur disponibili, come del resto i greci, ad accettare i rapporti omosessuali, che, com’è noto, hanno anche interessato personalità della cultura, della politica e dell’arte, nondimeno non facevano confusione tra unioni che, col linguaggio di oggi, potremmo definire “civili” e matrimonio. Il quale ritenevano che fosse riservato a persone di sesso diverso. Si legge, infatti, nel Digesto (Modestino I, regularum, D. 23. 2. 1) che “nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio”.
Dunque, abbiamo marito e moglie, compagno e compagna. E, forse, compagno uno e compagno due o compagna uno e compagna due.
Basta intendersi.

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