martedì, Ottobre 15, 2024
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Di Umberto di Savoia Ferruccio Parri disse: “sarebbe il migliore dei Re”

di Salvatore Sfrecola

Ferruccio Parri, politico antifascista, capo partigiano con il nome di Maurizio, primo Presidente del Consiglio dei ministri dal 21 giugno al 10 dicembre 1945, a capo di un governo di unità nazionale, che lavorò con lui fianco a fianco durante un periodo significativo della Luogotenenza, dà di Umberto di Savoia un giudizio più che lusinghiero: “in coscienza devo riconoscere che quell’uomo sarebbe il migliore dei Re”. E Luigi Einaudi, economista insigne, Governatore della Banca d’Italia, Ministro del bilancio e poi Primo Presidente della Repubblica, riconobbe che “il Re, fin dal primo giorno della Luogotenenza, è stato un esempio di coscienza del dovere, di spirito democratico, di correttezza costituzionale”. Ed ancora Indro Montanelli: “anche i più arrabbiati repubblicani ne riconobbero l’equilibrio, la correttezza, la lealtà. Rimase Re, dalla testa ai piedi, e lo è stato fino all’ultimo, anche di fronte alla morte. Secondo me avrebbe potuto essere il miglior sovrano di Casa Savoia”.

Giudizi di persone che lo videro da vicino, che poterono valutare il ruolo avuto nel periodo più drammatico della storia d’Italia quando, dopo l’armistizio annunciato l’8 settembre 1843, il nostro Paese, invaso dall’esercito tedesco, si trovò spaccato in due, al Sud con il legittimo governo nominato dal Re Vittorio Emanuele III, al Nord con una guerra civile sempre più sanguinosa.

In quei giorni Umberto, Principe ereditario, mostrò coraggio e determinazione, impegnato nel ricostituito Regio Esercito, a fianco delle truppe americane e inglesi. Poi, divenuto Luogotenente Generale del Regno, una soluzione immaginata da Enrico De Nicola, che sarà Presidente provvisorio della Repubblica, per consentire al Re “Vittorio Emanuele III, osteggiato dai partiti antifascisti, di ritirarsi dalla vita politica in maniera onorevole”, come scrive lo storico Andrea Ungari, Umberto fece prove generali di Re, apprezzato anche dai repubblicani, come dimostra il giudizio di Ferruccio Parri, ricordato iniziando.

Di questo periodo storico importante (iniziato con il decreto n. 140 del 5 giugno 1944), nel quale si va delineando una ripresa della dialettica dei partiti risorti dopo la parentesi fascista, scrive Andrea Ungari, professore ordinario di Storia contemporanea, riandando a vari momenti di quella difficile gestione dello Stato (“Umberto II, il Re degli Italiani”, nella collana “L’Italia in eredità” diretta da Alessandro Sacchi, Historica Edizioni, Roma, 2023, pp. 163, € 18.00) nel corso della quale, anche per iniziativa di Palmiro Togliatti, e quella che fu definita la “svolta di Salerno” i partiti politici lasciarono in sospeso la questione istituzionale il nome della comune lotta antifascista. Una situazione che, a giudizio di Ungari, “trasformò la Luogotenenza in una trappola per la stessa Monarchia. Infatti, non solo il regime luogotenenziale avrebbe costituito un’attenuazione dell’autorità regia, ma la presenza formale di Vittorio Emanuele III avrebbe inciso negativamente sullo stesso istituto, in quanto il Re poteva sempre essere tacciato di collusione e di compromissione con il fascismo. Si entrava in una fase, dunque, nella quale vi era un Re che non regnava e un Luogotenente che non era nella pienezza dei suoi poteri”. Tuttavia, Umberto seppe farsi apprezzare dai suoi interlocutori politici e dagli stessi alleati anglo-americani, tendenzialmente diffidenti nei confronti della Casa reale accusata di aver, quanto meno, tollerato il Fascismo. Sono pagine estremante interessanti quelle di Ungari che affronta anche il tema dei rapporti tra l’anziano Re ed il figlio delle cui capacità politiche sembra dubitasse. Quel Re era condizionato da “un certo orgoglio personale che non gli fece comprendere, in quel difficile contesto, che questa era l’unica via per togliere alla Monarchia l’ombra della compromissione con il fascismo e dare al Principe Umberto una chance maggiore nella sua lotta, difficile e complessa, per mantenere l’istituto monarchico come cardine della ‘nuova Italia’”.

Anche io ho scritto nello stesso volume della conclusione di quel periodo, con riferimento al referendum istituzionale del 2 giugno 1946, un evento dall’esito inevitabile, al di là dei risultati numerici e dei brogli che lo caratterizzarono, perché la Monarchia scontava gli effetti negativi della diffusa convinzione che fosse stata acquiescente nei confronti del Fascismo. Nessuno ricordava che i partiti, in quel drammatico 1922, accettarono il Governo Mussolini del quale molti fecero parte. Poi alcuni si ritirarono sull’Aventino lasciando libero il regime di manipolare lo Statuto Albertino e di emanare leggi liberticide delle libertà individuali, fino alle ignobili leggi razziali che il Parlamento aveva all’unanimità approvato. Nuoceva alla Monarchia anche la guerra perduta che l’Italia non aveva avuto interesse alcuno a combattere, come dimostra anche, per alcuni versi, la parallela situazione della Spagna rimasta fuori del conflitto, nonostante le sollecitazioni di Hitler che rivendicava anche l’aiuto militare assicurato all’esercito nazionalista guidato dal Generale Francisco Franco nel corso della guerra civile spagnola.

Di Umberto, ultimo Re d’Italia, morto quarant’anni fa, il 18 marzo 1983, ci ha offerto un affettuoso ricordo la figlia Maria Beatrice: “un uomo molto buono, molto intelligente e molto colto. E amava appassionatamente l’Italia. Per evitare una nuova guerra civile fra italiani, partì per il volontario esilio che durò tutta la sua vita. Dal lontano esilio portoghese – scrive la Principessa nel libro che abbiamo ricordato – cercò in ogni modo di aiutare gli italiani e fu sempre presente coi suoi rappresentanti ad ogni evento lieto e triste”. Incontrava chiunque si presentasse al cancello di “Villa Italia”. A tutti chiedeva della terra di provenienza, della famiglia, degli studi e del loro lavoro. E si soffermava a parlare delle città e dei borghi lontani. Uno ad uno, come li aveva visitati nella sua gioventù e come continuavano a vivere nelle parole di quanti lo incontravano a Cascais, in Portogallo, lo stato che aveva scelto lasciando l’Italia il 13 giugno 1946, partendo per l’esilio, o nelle riunioni che organizzava l’Unione Monarchica Italiana in terra di Francia, spesso in un albergo a Beaulieu sur Mer.

È sepolto nell’Abbazia di Hautecombe (Altacomba), in Savoia. I funerali, celebrati dall’Arcivescovo di Chambéry videro la partecipazione di numerosi Capi di Stato e di migliaia di italiani, persone comuni, adulti, giovani, giovanissimi, famiglie e moltissimi ex combattenti. Assenti le autorità della Repubblica incapaci di un ultimo gesto di generosità nei confronti del Sovrano che aveva evitato la guerra civile.

In Casa Savoia si regna uno alla volta. E così Umberto è sempre stato tenuto lontano dagli affari di governo. E lui non volle mai forzare. Da Principe ereditario rappresentava la famiglia presso le Corti europee, inaugurava mostre, premiava i vincitori di competizioni sportive, assisteva a manovre militari, oltre a svolgere le sue funzioni di ufficiale che via via assumeva crescenti responsabilità di comando. Di bell’aspetto, elegante, sempre sorridente era l’idolo delle ragazze italiane, ma sposò una principessa, Maria José, figlia del Re dei belgi, cattolica, come si conveniva ad un Savoia.

Era guardato con sospetto dal Regime. Si sapeva che non aveva simpatie per il Fascismo. Frequentava intellettuali ostili al governo di Mussolini, come Luigi Barzini Jr, giornalista, futuro parlamentare liberale, figlio di Luigi, scrittore e corrispondente da tutto il mondo per il Corriere della Sera, famoso per aver partecipato e descritto, nel 1907, la gara automobilistica Pechino-Parigi. Di formazione liberal-conservatrice, il Principe consentiva alla consorte di incontrare gli oppositori del Regime, come Benedetto Croce, che aveva stilato il Manifesto degli intellettuali antifascisti, ed altre personalità del mondo popolare e liberale, come Paolo Monelli e Guido Gonella. La Principessa intratteneva rapporti anche con Monsignor Montini, Sostituto della Segreteria di Stato, il futuro Papa Paolo VI.

Umberto aveva un ottimo rapporto anche con Italo Balbo, Governatore della Libia, il trasvolatore dell’Atlantico, popolare negli Stati Uniti, fascista scomodo, guardato con sospetto dal Duce. Balbo mise il Principe a conoscenza della scarsa preparazione militare delle nostre Forze Armate, emersa in modo drammatico nella guerra di Etiopia e poi nella partecipazione alla guerra civile spagnola. E dell’inadeguatezza degli armamenti rispetto all’evoluzione che avevano avuto in Europa e negli USA.

Il Principe, come altri componenti della Famiglia Savoia, come il cugino Amedeo d’Aosta, che meriterà l’onore delle armi dai vincitori dopo l’eroica difesa delle posizioni italiane sull’Amba Alagi, in Etiopia, era contrario all’alleanza con la Germania nazista. Un sentimento che gli avvicinò Galeazzo Ciano, Ministro degli esteri, genero del Duce, anche lui ostile alla Germania.

Umberto era sportivo, colto, amante dell’arte, com’è frequente per persone abituate a vivere in palazzi storici che sono autentici musei. Collezionava quadri e sculture, suggerì l’ammodernamento del Palazzo reale di Torino e delle regge sabaude piemontesi. Era anche molto religioso, un sentimento ispirato dalla mamma, la Regina Elena, improntata a quel sincero amore per i bisognosi per il quale Papa Pio XI volle conferirle la prestigiosa “Rosa d’oro della cristianità”. E che nel 1908 l’aveva vista soccorrere, senza insegne, tra le macerie di Messina e Reggio Calabria sconvolte dal terremoto, le popolazioni che tutto avevano perduto. La Regina che nella Prima Guerra Mondiale trasformò il Palazzo del Quirinale nell’Ospedale Militare n. 1, per assistere feriti e mutilati. 

Umberto indossò il saio della Confraternita del Santo Sudario, Pio sodalizio torinese vocato al culto sindonico, sin dalla fine del XVI secolo, ed entrò in contatto con eminenti sindonologi per seguire da vicino gli studi sull’enigmatico telo e la realizzazione delle prime immagini fotografiche. Nota è anche quell’immagine del Re che, ormai anziano e gravemente infermo, si genuflette devotamente di fronte al Pontefice Giovanni Paolo II, che fu pronto a risollevarlo tendendogli affettuosamente le braccia.

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