di Salvatore Sfrecola
Il dibattito politico giornalistico quasi quotidianamente prende atto che la gestione del potere, ai vari livelli di governo, incrocia illeciti di varia natura. Penale, come nei casi di corruzione, concussione e peculato, amministrativa quando l’illecito riguarda la gestione delle risorse di bilancio. In ogni caso, se la responsabilità ricade su un politico la casta erge una rete di protezione il più delle volte con riferimento alla natura elettorale del ruolo rivestito. Da cui la tesi che il soggetto in pratica risponde solo al popolo che lo ha eletto. Certo, è difficile sostenerlo in caso di illeciti penali conclamati. Infatti, si è opportunamente provveduto con l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) una fattispecie criminosa che, dopo l’ultima modifica somigliava molto alla corruzione. La norma prevedeva che “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni”. E comunque quel reato, definito anche “spia” o “sentinella”, segnalava fatti spesso irrobustiti, a ben indagare, di più consistenti violazioni di norme penali.
Ma dove esplode l’arroganza del potere è nel cosiddetto “danno erariale”, un illecito definito amministrativo-contabile che attiene alla gestione di denaro pubblico, cioè ad erogazioni non dovute, perché non rispondenti ad una finalità prevista dalla legge o superiori al dovuto, come nei casi, frequenti, di acquisto di beni e servizi ad un costo superiore al giusto. Aggiungiamo tutti i casi di realizzazione di opere pubbliche e della loro manutenzione nei quali la spesa copre opere eseguite in violazione delle prescrizioni contrattuali o delle regole dell’arte.
Accade in pratica tutti i giorni qua e là lungo lo Stivale come ci raccontano le cronache dei giornali e delle televisioni. E subito ricorre la richiamata difesa: “rispondo al popolo non alla magistratura” che nella specie è la Corte dei conti, istituzione esistente in tutti gli ordinamenti con il compito di controllare l’andamento della spesa pubblica e di recuperare l’importo di eventuali erogazioni illecite o eccessive, come indicato anche dai regolamenti dell’Unione europea.
Ricordo, in proposito, che il sindaco pro tempore di Foligno, del quale al momento ho dimenticato il nome, affermò nel corso di un incontro pubblico promosso dal Lions che solamente il popolo che lo aveva eletto avrebbe potuto giudicarlo. All’epoca ero il Procuratore della Corte dei conti dell’Umbria. Così spiegai che se lui avesse utilizzato fondi comunali per fare un campo di bocce invece di un giardino pubblico indubbiamente sarebbero stati i cittadini a giudicare se quella destinazione era da loro desiderata. Ma se il campo o il giardino fossero stati realizzati con dispendio di denaro pubblico, perché pagati troppo, avrebbe dovuto rispondere alla Corte dei conti. Le mie parole furono sottolineate da uno scrosciante applauso dei presenti. I cittadini sono sempre stati dalla parte dei giudici contabili perché consapevoli del fatto che quel denaro assegnato ai bilanci pubblici proviene dalle imposte dalle tasse che loro stessi hanno pagato.
Del resto, l’ordinamento non consente impunità, come dimostra la disposizione costituzionale (art. 68) posta a salvaguardia dei parlamentari i quali “non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”, una norma che accompagna la versione moderna degli ordinamenti rappresentativi che non ammettono la censura delle idee che proprio nelle assemblee legislative trovano la loro più solenne espressione.
Alla luce di queste regole antiche va giudicata l’iniziativa legislativa in discussione alla Camera dei deputati (1621, Foti) che modifica il sistema delle responsabilità per danno erariale rendendo difficile, e spesso impossibile, il recupero delle somme illecitamente spese. La ragione, esplicitata nella relazione illustrativa della proposta, è quella di esorcizzare il “timore della firma” che bloccherebbe amministratori e funzionari preoccupati di incorrere in un giudizio dinanzi alla Corte dei conti. I timorosi, per chi conosce l’amministrazione, sono gli incapaci e i disonesti, considerato che il rischio che paventano, e che ha commosso vari parlamentari della maggioranza, attiene a condotte caratterizzate da dolo o colpa grave. In sostanza, bisogna aver fatto danni con noncuranza delle regole per rischiare una condanna.
È una responsabilità dinanzi al popolo italiano quella che si assumono i parlamentari con l’eventuale voto favorevole. Forse i partiti di riferimento non ne risentiranno immediatamente in sede elettorale, ma è certo che la vicenda lascia un segno anche perché chi se ne intende sa che talune riforme per la Corte dei conti sono necessarie e auspicabili. Non certo quella di ridurre le garanzie che ovunque nel mondo accompagnano la spesa del denaro pubblico.